Èun pomeriggio di maggio. Francesca, 24 anni, sta disegnando nella sua camera da letto in provincia di Verona, quando sul telefono appare una notifica: “Qualcuno gioca?”.

Il messaggio le arriva su Discord, un’app di messaggistica istantanea usata dalle comunità più disparate – dagli amanti della cucina a chi si scambia consigli sulle aziende su cui conviene investire – ma che, fin dal suo lancio nel 2015, è nata con l’idea di servire una specifica comunità in continua crescita: i gamer, gli appassionati di videogiochi.

In Italia le persone che giocano regolarmente ai videogiochi sono 15,5 milioni, per un giro d’affari pari a 2 miliardi e 243 milioni di euro. Francesca è una di loro, da una vita. “Gioco da quando ero alle elementari. Grazie ai videogiochi online ho conosciuto non solo il mio migliore amico e la mia ragazza, ma anche una comitiva di una quindicina di persone con cui gioco e mi sento tutti i giorni”, racconta. Il suo gruppo di amici è sparpagliato in tutta Italia: la più vicina abita a Mantova, ma c’è chi viene da Taranto, Bologna, Como, Salerno.

Si tengono in contatto su Discord, che ha 100 milioni di utenti. Una volta installata l’app sul computer o sul telefono, si comunica con videochiamate, messaggi, scambio di link o file all’interno di chat private o in gruppi più o meno grandi, chiamati server. I server possono essere pubblici, e attrarre migliaia di utenti uniti soltanto da una passione comune – come succede sui gruppi di Telegram o Facebook, per esempio – oppure privati, e accessibili solo su invito.

“All’inizio mia madre pensava che i legami stretti online non fossero vere amicizie, perché non abitando vicini non ci si vede spesso. Ma è una stupidaggine. Sono rapporti che possono essere anche più profondi di alcune amicizie of­fline”, racconta Francesca.

Con i suoi amici è in contatto tutto il giorno: si scambiano messaggi su Telegram, si fanno compagnia mentre studiano o lavorano tenendo accesa la chat vocale di Discord, come un gruppo di studio in una biblioteca digitale. Ma, soprattutto, giocano insieme.

Per comunicare si può scegliere se scriversi oppure parlarsi

Dai film e dalle serie tv del secolo scorso abbiamo ereditato uno stereotipo duro a morire: quello del gamer antisociale, molto giovane, maschio, bianco, tendenzialmente pallido e solitario, piegato per ore sul proprio computer lontano dal sole e dalla vita sociale.

È un ritratto molto poco lusinghiero e in realtà già poco rappresentativo negli anni ottanta. Considerando i modi in cui il mondo dei videogiochi si è evoluto nel corso degli ultimi vent’anni per facilitare le interazioni e la socializzazione durante il gioco, oggi quell’immagine dei gamer è particolarmente anacronistica.

Quando le connessioni a internet non erano ancora rapide, una delle modalità di gioco più amate dai gamer erano i Lan party, degli incontri fisici in cui un gruppo più o meno numeroso di persone – da pochi amici a migliaia di appassionati – s’incontrava per giocare in modalità multiplayer (multigiocatore), collegando il proprio computer a una rete locale con un cavo ethernet oppure in wireless.

Anche se oggi collegarsi a una rete Lan non ha più senso, l’idea di incontrarsi in un posto fisico per giocare insieme è viva e vegeta. Per i più appassionati esistono tantissimi eventi, convention e festival fisici, che in molti casi sono stati ridimensionati o annullati negli ultimi due anni per via della pandemia, ma che normalmente attirano un gran numero di persone.

A Milano, per esempio, dal 2011 si tiene a settembre la Milan games week, una settimana di mostre, tornei e workshop dedicati ai videogiochi: nel 2019 ha registrato 100mila visitatori, scesi a 70mila nel 2021, dopo un anno di pausa forzata.

L’evento più celebre in assoluto nel nostro paese, ma anche punto di riferimento a livello mondiale, è il Lucca comics & games, una fiera internazionale dove si danno appuntamento amanti di fumetti, serie tv, fantasy, fantascienza e videogiochi. L’evento esiste dal 1993 e nel 2019 i biglietti venduti sono stati 26omila. Al suo interno esistono interi padiglioni in cui i gamer possono provare gli ultimi titoli, scoprirne di nuovi, gareggiare contro gli altri partecipanti o comprare gadget ispirati ai loro giochi preferiti.

Il caso Fortnite

Nel quotidiano, invitare gli amici a casa per giocare a un videogame è un modo per rafforzare amicizie nate altrove. Pietro, 12 anni, ha cominciato a giocare a Fortnite, uno dei titoli che va per la maggiore tra i giovani italiani, a casa di un amico quattro anni fa.

Il gioco, accessibile da computer, smartphone, PlayStation e XBox, è pensato per essere giocato insieme ad altre persone: si può condividere la partita con degli amici che si conoscono già oppure farsi appaiare ad altre persone che non si conoscono ma che hanno un livello di esperienza simile.

Ci sono due modalità principali: “Salva il mondo”, ambientato in un territorio post-apocalittico, chiede di cooperare con altre persone per compiere varie missioni al fine di proteggere i sopravvissuti e sconfiggere pericolosi alieni apparsi dopo una misteriosa tempesta; “Battle royale”, invece, la versione più popolare, vede cento giocatori lottare tra loro per la sopravvivenza della propria squadra.

La Milan games week tra il 2014 e il 2019. (Emanuele Cremaschi, Getty Images)

“Abbiamo un gruppo WhatsApp per metterci d’accordo su quando giocare”, spiega Pietro. “Conoscevo già quasi tutte le persone con cui gioco: sono compagni di classe o amici con cui andavo alle elementari. Attraverso di loro ho conosciuto degli altri loro amici, e ora giochiamo tutti insieme”.

Rispetto ad altri giochi, Fortnite non è pensato in modo specifico per creare forti legami con le persone conosciute all’interno del gioco. Esiste la possibilità di chiedere l’amicizia a chiunque abbia giocato con te in modalità Battle royale ed esiste uno strumento per chattare con gli altri durante la partita, ma il gioco è più che altro “un modo per divertirsi se fuori piove e non c’è niente da fare con gli amici”, dice Pietro.

Per tantissime persone, però, i videogiochi non rappresentano soltanto un modo per passare il tempo con le persone che fanno già parte della loro vita: sono una strada per creare legami completamente nuovi.

Come scriveva già nel 1999 il giornalista statunitense Andrew Shapiro nel saggio The control revolution (Public Affair 1999), “le comunità di gioco online consentono alle persone di estendere la propria rete sociale in un modo nuovo, di comunicare e condividere esperienze di vita con le persone indipendentemente da dove vivono e di formare relazioni online”.

Secondo Nick Yee, ricercatore che si occupa di interazioni sociali negli ambienti virtuali, il successo dei videogame poggia su tre aspetti fondamentali: la realizzazione, cioè il brivido di avanzare nel gioco, imparando nuove abilità e tecniche per essere sempre più bravo; l’immersività, ovvero la possibilità di fuggire per un po’ dalla realtà, guardando il mondo attraverso gli occhi di un avatar; e infine proprio la componente sociale, cioè la voglia di formare connessioni con gli altri giocatori, entrando a fare parte di uno sforzo collettivo.

Rete di massa

Negli ultimi vent’anni la diffusione sempre più capillare di internet ha reso possibile un livello di socializzazione attraverso i videogame senza precedenti. Un esempio lampante sono i cosiddetti Massively multiplayer online role-playing games (Mmorpg). Letteralmente “giochi di ruolo multigiocatore in rete di massa”, sono una categoria di videogiochi nei quali migliaia di gamer controllano ognuno un proprio personaggio, che interagisce con quelli degli altri e si evolve nel tempo, acquisendo abilità, strumenti ed equipaggiamenti.

Muovendosi all’interno di universi immensi e incredibilmente dettagliati, il giocatore deve svolgere man mano delle missioni. Spesso, i personaggi nei Mmorpg sono divisi in gilde o fazioni che si combattono a vicenda, e questo crea un senso di appartenenza alla propria squadra e delinea una società parallela, con dinamiche interpersonali complesse e stratificate.

La Milan games week tra il 2014 e il 2019. (Emanuele Cremaschi, Getty Images)

Per comunicare si può scegliere se scriversi oppure parlarsi, anche se in molti titoli più recenti la comunicazione tra giocatori è stata rivoluzionata dall’introduzione della possibilità di comunicare con gli altri direttamente all’interno del gioco con una connessione vocale.

Roblox, che conta più di 60 milioni di utenti mensili ed è particolarmente popolare tra i più piccoli, è anch’esso un gioco massively multiplayer, ma non si basa necessariamente sull’interpretazione di un ruolo.

In questo caso il gioco permette agli utenti di creare mondi virtuali che possono essere diversissimi tra loro: qualcuno potrebbe decidere di ricreare la Roma imperiale, per esempio, oppure di costruire un sottomarino, una stazione spaziale o una giungla. Durante il gioco si possono guadagnare e spendere valute virtuali, i robux, utili per acquistare abilità aggiuntive o accessori per i propri avatar.

Un caso a parte sono gli open world, i giochi dove è data ampia libertà al giocatore nella scelta di come e quando affrontare obiettivi, oppure se dedicarsi alla semplice interazione con l’ambientazione e ciò che la popola.

Spazi digitali laterali

In ogni caso, che si giochi a Roblox, a un Mmorpg (il più celebre è World of warcraft), a un open world come Minecraft o a videogiochi di strategia come League of legends, gran parte della socializzazione non avviene all’interno del videogioco stesso, ma in spazi digitali laterali.

Damiano, messinese di 23 anni che gioca on­line da quando ne aveva dieci, nel tempo ha visto la comunicazione con gli altri gamer passare attraverso molti strumenti diversi. “Quando ero più piccolo era più difficile fare amicizia fuori dai giochi: i cellulari non avevano WhatsApp o Telegram. Era complesso mantenere un rapporto una volta finita la partita”, racconta. “Oggi con cose come Discord è più facile, e puoi anche mantenere l’anonimato: inserisci un nickname e basta, senza neanche bisogno di scambiarsi un numero”.

Per un certo periodo il programma prediletto per tenersi in contatto con le persone conosciute sui videogiochi è stato Skype: se s’incontrava più volte lo stesso utente in un server o se si faceva una partita particolarmente buona con qualcuno, gli si chiedeva il contatto per aggiungerli su Skype per potersi organizzare e giocare ancora insieme.

Ho tanti amici offline quanti online, ma penso di essere riuscito a superare la quarantena solo grazie a questi ultimi

“La prima persona con cui ho fatto amicizia in questo mondo l’ho conosciuta perché io e lui eravamo molto bravi in modalità player contro player su Minecraft. Eravamo i più forti del server e tra noi si era instaurata una classica rivalità. Ci eravamo incontrati su Skype, quando c’erano ancora tantissimi gruppi pieni di gente, e abbiamo cominciato a giocare insieme. Essendo più piccoli non ci siamo scambiati i numeri e poi dopo un paio d’anni ci siamo persi di vista, quando lui ha smesso di giocare a Minecraft”, racconta Damiano.

“Circa un anno dopo l’ho visto di nuovo on­line su Skype e ci siamo dati appuntamento su un gioco dell’Xbox. L’amicizia da lì è ripresa, e ci siamo anche visti diverse volte di persona, sia con lui sia con il resto del gruppo che si è creato: a Milano, a Roma, ma soprattutto alle fiere, che sono il punto d’incontro più bello per noi che abbiamo passioni comuni”.

Damiano e Antonella si sono conosciuti sul sito finlandese Habbo, un cosiddetto “simulatore di vita”, cioè una comunità virtuale in cui gli avatar dei giocatori si muovono in un hotel, partecipando a competizioni e minigiochi e creando legami tra loro. Lei ha 28 anni ed è di Scampia, un quartiere di Napoli noto per l’alto tasso di disoccupazione e di criminalità. “Fin da quando ero piccola ho cercato di evitare il mio ambiente”, spiega la ragazza. “Giocare mi ha aiutata moltissimo a interfacciarmi con altre persone”.

Dopo aver cominciato a parlare su Habbo, Damiano l’ha aggiunta a un server di Discord in cui varie persone che si erano conosciute sui videogame si mettevano d’accordo per giocare. Il suo ragazzo, con cui Antonella sta da sette mesi, l’ha conosciuto lì.

Situazioni spiacevoli

Questo non vuol dire che non esistano rischi: Antonella, per esempio, ricorda di qualche caso spiacevole in cui, su Habbo, ha ricevuto approcci a sfondo sessuale: “Capita che di punto in bianco spunti qualcuno a chiederti che taglia di piede porti e se ti piacerebbe calpestarlo”. In alcuni giochi, come League of legends, la violenza verbale è talmente diffusa che tra giocatori ci si consiglia di non usare mai la chat o la connessione vocale all’interno del gioco. E, nonostante le donne che giocano siano ormai una percentuale non indifferente – in Italia sono il 44 per cento del totale – abbondano i casi di sessismo da parte di chi considera il mondo dei videogiochi un appannaggio maschile da difendere.

La Milan games week tra il 2014 e il 2019. (Emanuele Cremaschi, Getty Images)

Sebbene i mezzi di comunicazione a volte tendano a parlare dell’interazione tra gamer con toni preoccupati, non bisogna pensare che giocare online esponga i più giovani a rischi più seri di altre attività quotidiane. Per citare Jacqueline Ryan Vickery, professoressa statunitense che studia le opportunità e i rischi rappresentati da internet per i minori, è sbagliato separare le conversazioni sulla sicurezza online da quelle sulla sicurezza offline. Se, da una parte, i bambini già vulnerabili nella vita reale corrono maggiori rischi anche su internet, i dati mostrano che è più probabile che a fare del male ai minori siano persone vicine alla sfera domestica – come parenti, amici di famiglia e altri adulti di cui si fidano – piuttosto che completi sconosciuti incontrati online.

Insulti personali

“Così come si conosce gente terribile nella vita reale, se ne incontrano anche su questi server”, dice Alberto, diciassettenne di Piove di Sacco, in provincia di Padova. “Si può disattivare la chat vocale o silenziare le altre persone, non bisogna stare a sentirli. E ci sono parole che sono bandite automaticamente dai giochi nelle chat, tipo le bestemmie. Gli insulti personali, però, vanno segnalati volta per volta”.

Nonostante la tossicità di alcune comunità, Alberto non ha dubbi sul risvolto positivo che i videogiochi hanno avuto sulla sua salute mentale. “Non sono una persona che fa fatica a socializzare: ho tanti amici offline quanti online, ma penso di essere riuscito a superare la quarantena solo grazie a questi ultimi”, racconta.

“Ho bisogno di circondarmi di amici per sentirmi meglio e avere meno paura di restare solo: se non fosse stato per Discord sarei uscito molto male da quel periodo”.

Oltre a un piccolo server in cui parla con gli amici più stretti, Alberto ne frequenta anche di più grandi dedicati ai suoi giochi preferiti, in cui s’incontrano persone di tutta Italia – o, volendo, di tutto il mondo – divise in base al livello di esperienza e di bravura.

Lì Alberto ha conosciuto quattro ragazzi con cui non si è ancora incontrato di persona, ma con cui ha passato ore e ore a giocare e chiacchierare online: in questi giorni si stanno mettendo d’accordo per vedersi una volta finita la scuola.

“Conosco gente che dice che per essere davvero amico di qualcuno lo devi conoscere nella vita reale, ma io non la penso così”, dice il ragazzo. “Un’amicizia dipende solo dai bei momenti vissuti insieme”.

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