Capri, 2012. (Ferdinando Scianna, Magnum Photos/Contrasto)

“Il mare fa come gli pare, toglie qua e mette là come gli gira a lui. L’Oceano è disordinato e prepotente”. Vero e proprio protagonista del nuovo romanzo di Lorenza Pieri, Erosione, il mare al centro del libro non è quello placido del Mediterraneo d’estate, ma “qualcosa di imprevedibile e pericoloso che si presentava allo stato liquido”.

La storia di Erosione nasce da un luogo, la Chesapeake Bay, sulla costa atlantica degli Stati Uniti, una zona in cui la terra deve fare da sempre i conti con l’acqua: l’oceano di fronte e il più grande estuario nordamericano alle spalle. In particolare, questa storia ruota intorno a una casa, una villa sul mare che, in seguito a fallimentari tentativi per salvarla dal progressivo innalzamento delle acque e colpita una stagione dopo l’altra da allagamenti e uragani, perderà ogni valore immobiliare. Il romanzo, che si svolge nell’arco di una giornata — la giornata del trasloco —, è un racconto a tre voci, quelle dei tre fratelli proprietari della casa: una narrazione iperrealistica che, senza il bisogno di scenari distopici, ci catapulta in un dramma che è sempre più vicino.

Il ghiaccio si scioglie

Non sono tanti i libri in cui il tema del cambiamento climatico ha una sua funzionalità — e maturità — narrativa. “L’oceano che erode è stato il punto di partenza da cui ho costruito la storia di tre personaggi e delle loro voci così diverse. L’ispirazione viene da una grande casa che ho visto, a poco a poco, andare in rovina, così come ho visto la spiaggia inghiottita dal mare”, dice all’Essenziale Lorenza Pieri, che ha vissuto otto anni negli Stati Uniti e frequentato a lungo la zona di Chesapeake Bay.

“Ho scritto il libro durante la pandemia del 2020, in un momento in cui per tutti le cose stavano cambiando”. Dei tre fratelli è il personaggio di Anna, insegnante di scienze con la fissazione del cambiamento climatico, quella che più ha a cuore il climate change. Ripresa dai dirigenti scolastici per le sue lezioni considerate troppo radicali e angosciose per i ragazzi, è convinta che l’“erosione” della loro casa sia connessa in qualche modo alla scomparsa del vecchio padre Joe: “Anna si era convinta che nel 1999 fosse mancato lo scudo, il mantello protettivo, ma non solo, che il nonno in qualche modo avesse deciso di portarsi la casa con sé, con l’aiuto delle maree, degli uragani, dei tornado; che pezzo a pezzo avesse iniziato a spargerla un po’ in mare, un po’ nella sabbia, un po’ in cielo, ovunque, in quella dimensione immateriale che chiamiamo più comunemente morte”.

Il ghiaccio si scioglie, il livello del mare sale. La questione dell’innalzamento delle acque è un pericolo concreto, e non soltanto per la costa est degli Stati Uniti. Anche perché in mare tutto è interconnesso e quello che accade in un luogo è inevitabilmente collegato a ciò che succede altrove. Uno dei maggiori problemi legati alla minaccia del “mare che sale”, come lo chiama l’oceanografo e scrittore Sandro Carniel, è che evolverà in maniera difforme durante il prossimo secolo, creando enormi disuguaglianze. Nelle aree più ricche e popolate probabilmente saremo in grado di proteggerci più o meno efficacemente — anche se con numerosi effetti collaterali per l’oceano stesso —, mentre le zone povere e meno popolate subiranno conseguenze drammatiche: la popolazione esposta non avrà altra scelta che andarsene.

Nel Mare che sale, un libro breve e imprescindibile, Carniel fa l’esempio di vari luoghi del mondo dove il sea rise level ha già avuto un impatto evidente: l’isola di Waimanalo alle Hawaii, Venezia, l’isola di Labuan nel Borneo. Tra tutti i problemi legati all’oceano, quello dell’erosione delle coste è forse il più visibile e immediatamente raccontabile, anche se tanti suoi effetti a lungo termine non sono ancora stati interiorizzati.

“Una recente stima condotta tra 120 città costiere”, scrive Carniel, “riporta che, nell’anno 2100, in città come New Orleans e Guangzhou (oltre 18 milioni di abitanti) i danni supererebbero la cifra di 1.000 miliardi di dollari americani. Se vi state chiedendo come sia possibile per una pur enorme New Orleans totalizzare un danno paragonabile all’intero pil dello stato in cui si trova la risposta è semplice: il mare che sale non solo minerà le attività produttive, ma anche tutti quei beni e servizi considerati stabili; per esempio renderà inutilizzabili proprietà immobiliari per un controvalore di almeno 400 miliardi di dollari”.

Misurarsi con sogni e paure

“Da Miami a Rio de Janeiro, da Venezia a Shanghai, le aree a rischio sono davvero numerose”, scrive Alessandro Vanoli nella Storia del mare. “Se le proiezioni sono giuste, a fine secolo il mare potrebbe alzarsi tra un mezzo metro e un metro, allagando una parte importante delle pianure costiere. E la brutta notizia è che questo fenomeno ha una sua forza inerziale, per cui, anche se la tendenza al riscaldamento si invertisse domani, il mare continuerà a salire comunque per tantissimo tempo”.

La Storia del mare di Vanoli è un libro mastodontico sia per lunghezza sia per ambizione – coprire tutta la storia dell’oceano dalle origini – che riflette in qualche misura la ricchezza straordinaria e tentacolare di questo elemento. La lettura è resa piacevole dalla quasi totale assenza di citazioni — benché in fondo al volume ci sia una bibliografia essenziale preziosissima — e la narrazione scorre come quel flusso inesauribile che a detta degli antichi era l’oceano. Misurarsi con la storia del mare, del resto, è un viaggio da fare: è un modo di misurarsi con sogni e paure. “Raccontare di nuovo la storia del mare”, ha detto Vanoli, “è anche un modo per ricordare che non ci appartiene, non è stato creato per noi. Noi non siamo altro che una specie fra le specie. E siamo una specie ‘esondante’: proprio quello che non ci voleva per un ecosistema”. Oceanografi, storici, filosofi, climatologi. Tutti concordano: il mare non ha bisogno dell’uomo, mentre l’uomo ha bisogno del mare.

Lo scriveva lo storico Jules Michelet già nel 1860 quando pubblicò il suo celebre saggio Il mare. Michelet, cronista della rivoluzione francese, vedeva nella prospettiva del mare un confine che separa due mondi molto diversi, dove uno è costantemente in pericolo; sottolineava inoltre il legame tra il mare (la mer) e la madre (la mère), esplorando il rapporto tra l’uomo e questa “madre” della vita. “Che cosa dice la grande voce dell’oceano? Dice la vita, la metamorfosi eterna. Dice l’esistenza fluida. Svergogna le ambizioni pietrificate della vita terrestre. Che dice ancora? Dice immortalità. Una indomabile forza vitale si trova al fondo della natura. Quanto di più se si ritroverà alla sommità: nell’anima! Che cosa proclama infine? Solidarietà”. Se la prosa tardoromantica di Michelet suona misticheggiante per il lettore di oggi, la sua visione protoambientalista è preziosa e per nulla datata.

“Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra”, scriveva il poeta Giorgio Caproni. “Vale anche per l’oceano”, dice ancora all’Essenziale Sandro Carniel. “L’oceano sta morendo. Ma il riscaldamento raddoppiato, la siccità e così via non mettono a rischio l’oceano, lo mettono a rischio nella sua configurazione attuale. Tuttavia, mentre in qualche modo l’oceano si aggiusterà con un nuovo equilibrio, sarà magari un oceano più sporco, più inquinato ma esisterà, a rischio sono soprattutto le specie come la nostra, che non si sanno adattare in tempi brevi alle cose che cambiano velocemente. Anche se pensare globalmente non è nella natura dell’homo sapiens, senza dubbio la pandemia è stata una sorta di prova generale. Anche se è nulla in confronto a quello che accadrà”, continua.

Eppure l’oceano, in questo senso, potrebbe essere un grande maestro. Il mare insegna il rispetto della natura: fin dalle origini, i marinai lo temono e lo rispettano. L’oceano e i suoi abitanti insegnano prima di tutto la solidarietà, come suggeriva Jules Michelet. Gli studi sui cetacei per esempio mostrano che le balene vivono all’interno di strutture sociali altamente sviluppate, addirittura matriarcali. Tutta la vita nell’oceano è un grande e unico flusso connesso, come del resto avevano già intuito gli antichi greci per i quali il dio Okeanos, figlio di Urano (il cielo) e di Gea (la terra) era una divinità fluviale. Omero lo descrive come un immenso fiume che cinge tutto lo spazio terrestre e che, scorrendo su se stesso, collega il mondo. Un proverbio swahili dice “L’oceano ci porta ovunque”. Il mare è senza confini: non vale lo stesso per la terra. Anzi, quando si tenta di metterli i confini accadono tragedie come quelle molto frequenti nel Mediterraneo centrale. Per gli antichi greci c’era anche una relazione tra acqua dolce e acqua salata, questione centrale di cui spesso sembriamo dimenticarci.

Non esiste una talassocrazia

“Se i ghiacci della Groenlandia si sciogliessero, cosa molto difficile, la pianura Padana andrebbe sott’acqua”, dice all’Essenziale Giulio Boccaletti, saggista e climatologo italiano che vive a Oxford, autore di Acqua. Una biografia. “Ovviamente c’è un limite in cui il confine tra mare e acque terrestri si rompe. Oggi le acque sono considerate dall’oceanografia un sistema unico, ed è chiaro che il rapporto tra questi due mondi, le acque del mare e quelle terrestri, sta diminuendo.

L’esempio di nuovo è quello del Po dove, a causa della siccità, l’acqua del mare è risalita di 30 chilometri. Ma c’è un’importante distinzione da fare: mentre le acque dolci sono di sovranità nazionale, il mare non è soggetto a nessun governo. C’è una ragione tecnica alla radice dei problemi dell’oceano, non è solo noncuranza. Il deep sea è un bene comune. Non esiste una talassocrazia, come ad esempio al tempo dell’impero Britannico: non vogliamo un “governo del mondo”. E nemmeno abbiamo dato alle Nazioni Unite la nostra sovranità. Tuttavia, abbiamo bisogno di investire di più in istituzioni internazionali e di coordinamento”, continua Boccaletti.

È avvilente notare che a Lisbona dal 27 giugno al 1 luglio, in occasione della conferenza dell’Onu per l’oceano realizzata proprio per sostenere l’attuazione dell’obiettivo 14 dell’Agenda 2030, l’Italia non fosse tra i 21 paesi partecipanti né fosse presente alcun ospite italiano, eccetto il navigatore oceanico Giovanni Soldini.

Si dice che “il mare slega tutti i nodi”. Ho sempre pensato che la frase rimandasse al benessere che la semplice vicinanza al mare dona alla nostra specie. Quel famoso “brivido mistico” di cui parlava Herman Melville e che secondo lui spingeva “quasi ogni ragazzo che abbia dentro in sé uno spirito sano e robusto” ad ammattire prima o poi dalla voglia di mettersi in mare. Tuttavia, forse il mare scioglie i nodi proprio perché ha a che fare con la vita, con l’esistenza fluida.

La concentrazione salina, la temperatura, la pressione e le correnti sono tutti elementi che hanno a che fare con la vita. Con l’ossigeno che respiriamo. Si tratta del più grande ecosistema del mondo, un sistema complesso nel senso letterale del termine (cum + plexo) ovvero composto di più parti collegate tra loro e dipendenti l’una dall’altra. Un sistema che sta cambiando più velocemente di quanto pensassimo: non resta che affrontarlo con strumenti altrettanto complessi. E i libri sono tra questi.

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