È al poeta veneto Andrea Zanzotto, il cantore della campagna, che si sono rivolti gli Anagoor per il loro ultimo spettacolo, Ecloga XI, andato in scena al Sociale di Bergamo e atteso in diversi festival nei prossimi mesi. Il collettivo teatrale, nato nel 2000 a Castelfranco Veneto (il nome riprende il racconto di Dino Buzzati Le mura di Anagoor), trova forza nella contaminazione dei linguaggi: i loro spettacoli sono come visite guidate lungo originali percorsi del pensiero, con confronti artistico-letterari in cui si mescolano teatro e narrativa, performance e video, artigianalità e tecnologia e ancora lezioni vere e proprie, declamazione di versi e tanto altro. Non c’è dubbio che la poesia sia uno dei terreni più adatti al loro linguaggio composito. Ma da Ecloga XI non bisogna aspettarsi una semplice lettura, non si raccontano vita e opere di Zanzotto, non se ne illustra la poetica né si commentano i componimenti come ci si aspetterebbe in un normale tributo a un poeta nel periodo del suo centenario (Zanzotto era nato nel 1921 a Pieve di Soligo). Allora come mai Zanzotto? Cosa dei suoi versi enigmatici, che alternano italiano e dialetto veneto, neologismi e arcaismi, ha attirato l’attenzione di Simone Derai, il regista del gruppo che dello spettacolo ha curato anche scene e luci, oltre che la complessa drammaturgia insieme a Lisa Gasparotto? Cominciamo dal titolo. Le ecloghe più celebri della storia della letteratura sono le dieci raccolte da Virgilio nelle sue Bucoliche. Zanzotto nel 1962 ha recuperato lo stesso genere pastorale nelle sue IX Ecloghe, non osando eguagliare il numero del poeta latino nel suo “omaggio presuntuoso”, come lui stesso definisce la raccolta. Anche gli Anagoor usano la stessa formula come sottotitolo dello spettacolo e l’undicesima ecloga diventa così l’intera opera del poeta loro conterraneo, la cui voce profetica ha a che fare con il teatro molto più di quanto potrebbe sembrare.

Indagine sul linguaggio

Alla prova del palco, l’opera di Zanzotto diventa un’indagine sincera e appassionata sul linguaggio della scena. Viene da pensare che sia questa sorta di archeologia della parola ad aver attratto gli Anagoor.

È qualcosa che si avverte mentre si ascoltano i versi di Zanzotto uno dopo l’altro, fin dall’inizio dello spettacolo quando, con il sipario ancora abbassato, la sala viene attraversata dal Recitativo veneziano (la voce è di Luca Altavilla) scritto per la scena d’apertura del Casanova di Federico Fellini, appello propiziatorio al nume lagunare durante il carnevale, ovviamente inventato dal poeta.

Poi il sipario si alza e si scorge una tela raffigurante la Tempesta di Giorgione, ma privata delle figure umane. Saranno due attori, Marco Menegoni e Leda Kreider, a ripopolare il paesaggio dipinto, avvicinandosi alla tela spalle al pubblico, illuminandola con cautela prima di iniziare il loro viaggio inarrestabile attraverso versi, cantilene, strofe e strofette, ma anche testi di prosa, interventi, riflessioni di Zanzotto in cui il pubblico può, anzi deve continuamente perdersi e ritrovarsi.

La svolta dello spettacolo sta nell’oltraggio alla tela, momento simbolico potentissimo per la sua semplicità, quando Menegoni sfregia il paesaggio con un rullo di vernice nera. Ma in Zanzotto l’oltraggio ha un significato tutt’altro che negativo, se si pensa alla poesia con cui si apre una delle sue raccolte più importanti, La beltà, intitolata appunto Oltranza oltraggio: sorta di manifesto in cui il poeta dichiara la necessità di andare oltre, “più in là” in senso sia fisico sia metafisico. Dopo il peccato originario gli attori, ormai esplicitamente riconoscibili come gli Adamo ed Eva di questa messinscena, a turno si spogliano e si rivestono come per una sfida alternata alla nuda verità. Sul palco prende forma un Eden, un giardino cangiante e primordiale in cui i due sono riusciti a entrare – una scena che parla di ambiente molto più degli appelli retorici di tanti spettacoli impegnati visti negli ultimi anni.

Nel finale Kreider rimane in penombra tenendo in braccio un neonato infagottato come nel dipinto di Giorgione, recitando dei versi in petèl, parole dialettali con cui le madri parlano ai neonati e scimmiottano i loro suoni inarticolati. Quella di Zanzotto è una poesia che osserva e ascolta, più che dire qualcosa: è una poesia che “c’è”, per dirla con Heidegger. La sfida, quindi, non era tanto sciogliere le astrusità dei versi, ma metterli in condizione di donarsi al pubblico in tutta la loro contraddittorietà: in questo consiste il virtuosismo dello spettacolo. Indimenticabile il momento in cui Kreider ammette candidamente: “Sono adatta alla mia epoca”. Proprio questa, con la pandemia, la crisi economica e ambientale, la guerra. Quando ci chiediamo “perché i poeti” (di nuovo Heidegger) è perché nei loro versi emerge il presente: o meglio, nei loro versi il presente accade. Questo accadere, gli Anagoor sono capaci di rappresentarlo.

Ecloga XI, di Anagoor, testi: Andrea Zanzotto. Regia, scene, luci: Simone Derai. Con Leda Kreider e Marco Menegoni. Musiche e sound design: Mauro Martinuz. Tournée: OperaEstate, Bassano del Grappa, 5 agosto; Vie Festival, Vignola, 13-14 ottobre; Festival delle Colline Torinesi, Torino, 16 ottobre.

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