Da qualche settimana è in corso una piccola discussione pubblica su un argomento importante. La questione è se, in un’epoca in cui il loro uso si è esteso gradualmente a ragazzi e adolescenti sempre più giovani, i telefoni cellulari debbano o meno essere vietati a scuola.

L’iniziativa di alcuni presidi, che all’inizio dell’anno scolastico hanno annunciato nelle loro classi lezioni libere dagli smartphone – i telefoni verranno consegnati dai ragazzi all’inizio delle lezioni e riconsegnati a fine giornata – ha scatenato prevedibili contrapposizioni.

I due fronti impegnati nella discussione sono ben delineati. Da un lato il potente spirito conservatore che riempie ogni angolo del nostro paese, quel sentimento mille volte citato di rifiuto di ogni cambiamento che si fa particolarmente saldo quando un simile pericolo è mediato dalla tecnologia. Dall’altro il piccolo afflato resistente di chi, anche da noi, ambirebbe osservare il proprio mondo finalmente al passo con i tempi, un sentimento che in alcune occasioni sfocia in un pregiudizio positivo verso ogni tecnologia.

Le variabili da invocare al riguardo del tema “smartphone a scuola” restano in ogni caso molte. Ci sono intanto enormi differenze di approccio tra scuole elementari, medie o superiori, esistono poi schemi didattici che prevedono l’uso degli smartphone in particolari tipologie di lezione, per esempio quelle di educazione digitale; saranno insomma possibili approcci più o meno rigidi ed eccezioni più o meno ampie al divieto il quale peraltro, da un punto strettamente tecnico, sarebbe già previsto da una vecchia indicazione del ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni del 2007.

Il buono e il cattivo

Sull’effetto distraente sulle lezioni di matematica o filosofia da parte degli smartphone nelle tasche dei nostri ragazzi temo non ci sia molto da discutere, ed esistono anche convincenti studi sociologici che lo confermano. Sulla possibilità di immaginare una nuova didattica nella quale lo smartphone sia posto al centro del progetto educativo, prevista almeno in parte anche dal piano della scuola digitale attualmente vigente, sarebbe il caso di non farsi troppe illusioni: si tratta di una delle molte idee affascinanti che internet ci ha suggerito ma che si scontra con alcune evidenze piuttosto chiare.

Manca al momento la cultura digitale degli insegnanti, manca l’infrastruttura digitale che la sostenga, manca – soprattutto – la cultura digitale dei ragazzi, che usano le tecnologie a propria disposizione per altri scopi e in altre direzioni rispetto a quelle didattiche. Si tratta di una lunga lista di abilità che non è possibile dare per scontate e che non si improvvisano. Competenze che spaziano dalla comprensione della complessità degli ambienti digitali, nei quali il buono e il cattivo è per la prima volta straordinariamente mescolato, a capacità tecniche utili per scegliere le proprie fonti in autonomia, schivando i tranelli di una comunicazione che è sempre un passo avanti, anche in termini di sofisticazione, rispetto al pubblico cui è destinata.

Lo smartphone impone così a tutti noi le sue caratteristiche totipotenti ma il risultato di una simile duttilità si concretizza molto spesso in una grande confusione sotto il cielo.

È del resto questo l’aspetto che abbiamo imparato a conoscere meglio in questi venticinque anni di rete: la distanza considerevole tra le potenzialità degli ambienti digitali e i risultati concreti che si ottengono nel momento in cui simili prassi sociali vengono messe in campo.

La distanza tra il possibile e il probabile negli ambienti digitali sembra per ora molto ampia

Una scuola digitale fatta da persone (insegnanti e studenti) digitalmente competenti non avrebbe il minimo problema a comprendere gli smartphone (insieme a moltissime altre fulgide tecnologie) dentro il canestro delle proprie opzioni didattica e, grazie ad esse, a trasformarsi in una ghirlanda luminosissima, incomparabilmente migliore di ogni scuola precedente. Ma come accade sempre, la distanza tra il possibile e il probabile negli ambienti digitali sembra per ora molto ampia.

Mentre di fronte a simili dubbi il tecnofobo si sfregherà le mani vedendo confermati i propri pregiudizi, il tecnoentusiasta potrà rispondervi che se non si comincia da qualche parte nulla in questo paese cambierà mai. Vuoi rimanere al pennino e all’inchiostro?, ti apostroferà stizzito. Il cambiamento si fa iniziando a cambiare passo dopo passo, dirà subito dopo. E certamente avrà le sue ragioni.

Domani

Le mie pregresse esperienze di ostinato tecnoentusiasta indicano con dovizia di singoli casi che, nei luoghi in cui la cultura digitale è carente, la rete internet non sempre libera le menti e anzi spesso acuisce disparità e tensioni, complica i problemi invece che risolverli, svela – soprattutto – gli aspetti meno edificanti del nostro carattere con una precisione mai raggiunta in passato.

La discussione sul divieto degli smartphone a scuola non riguarda allora la diatriba tra il vecchio che resiste e il nuovo che avanza, tra il mondo di una volta e quello di domani, ma tra due mondi nuovi che oggi, dentro le reti digitali, viaggiano uno di fianco all’altro. Quello perfettibile e mille volte auspicato di una tecnologia che è lì a portata di mano e che certamente domani (sempre domani) migliorerà il nostro modo di lavorare, le nostre relazioni con gli altri, la nostra cultura e quindi anche il nostro modo di studiare, e quello di un altro mondo nuovo nel quale la tecnologia è entrata senza chiedere permesso e ha rivoluzionato le nostre vite con risultati non sempre positivi, senza che in ogni caso noi ci trovassimo nulla da ridire.

In questo secondo mondo, che oggi è quello largamente dominante, non esistono grandi dubbi che per ora sulla questione degli smartphone nelle tasche dei nostri figli a scuola sarebbe utile qualche cautela.

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