Illustrazione di Andrea Ventura

“Conosco un posto carino sul Lungotevere dove possiamo andare, mi ci ha portato l’ultimo amico che ho sposato. Questi sessantottini dopo aver contestato le istituzioni borghesi si sposano in tarda età e con grande entusiasmo”. Pranzare con Luciana Castellina può voler dire parlare di cinema, di un circolo pieno di giovani dove è appena stata, di Slow food con cui collabora da sempre in varie forme, della politica di oggi o della storia della sinistra. Novantadue anni, una stampella “che camminare a volte mi fa fatica”, giovane dirigente del Partito comunista italiano (Pci) nel secondo dopoguerra, giornalista, espulsa dal partito con il gruppo del Manifesto nel 1969, deputata per il Partito di unità proletaria (Pdup), eurodeputata. “Mi manca solo l’amministratrice di condominio”, scherza. Un’altra cosa che riesce bene a questa signora che da bambina andava a scuola con Anna Maria Mussolini, la quinta figlia del dittatore fascista, è tenere assieme mondi e personaggi diversi.

Nel 2002 per esempio partecipava al progetto NoWar Tv, un canale satellitare che immaginava di rispondere alla retorica della guerra al terrore lanciata dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq. “Con due ragazzi del Forte Prenestino, un centro sociale di Roma, decidemmo di intervistare l’ex presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro sulla natura pacifista della costituzione italiana. I ragazzi si presentarono in senato senza cravatta e i commessi ne rimediarono un paio. Quando la figlia del presidente, Marianna, aprì la porta dello studio e ci accolse calorosamente sembravano intimiditi. Ma dopo pochi minuti erano lì a chiacchierare amabilmente con quello che era stato uno degli esponenti più conservatori della Democrazia cristiana (Dc)”.

Come un’amante in fuga

Gli anni della militanza di Castellina sono segnati da due passaggi storici, per la sinistra e per lei: l’espulsione dal Pci del gruppo che aveva fondato il Manifesto nel 1969 e la fine dello stesso Pci nel 1991.

“Se lo ricordano in pochi, ma tra il 1989, quando cominciò il processo che avrebbe portato allo scioglimento del Pci, e la nascita dei due partiti che se ne divisero l’eredità nel 1991 (il Partito democratico della sinistra e Rifondazione comunista) sparirono circa 400mila iscritti. Non si può dire ‘abbiamo sbagliato tutto’ e pensare che alle persone non passi la voglia di impegnarsi. A Rimini, dove si svolse l’ultimo congresso del Pci, pioveva e finita la votazione non sapevamo dove andare. Dopo una cosa così che fai, vai a cena?”.

Nel 1969 c’erano invece l’entusiasmo di un gruppo politico convinto delle proprie ragioni e un Partito comunista colto alla sprovvista dal movimento del 1968. E convinto che alle deviazioni occorresse rispondere con la disciplina. “Fu una brutta pagina nella storia del Pci. Io e i miei compagni del Manifesto fummo accusati di ‘frazionismo’ ed espulsi. I ferrovieri iscritti al Pci non scaricavano il Manifesto dai treni, che così non arrivava in edicola. Non era un ordine, era rabbia contro i traditori”.

Per far capire quale fosse il clima Castellina racconta un episodio del 1970. Era il “settembre nero”, durante il quale l’esercito giordano scatenò un’offensiva contro la guerriglia palestinese. Castellina volò a Beirut per seguire la crisi per il Manifesto. In quei giorni morì il presidente egiziano Nasser, impegnato in una mediazione tra le parti. “Andai al Cairo e presi una stanza in albergo assieme all’amica Miriam Mafai, che era lì per la rivista Vie Nuove”. Mafai allora era già la compagna di Gian Carlo Pajetta, ex partigiano e importante dirigente del Pci. Lui chiamò per annunciare il suo arrivo per i funerali. “Terrore di Miriam! Non poteva farsi trovare in camera con una dissidente. E così eccomi lì come un’amante in fuga, in albergo con le scarpe in mano in cerca di un posto dove dormire. Pajetta mi evitava, non salutava, si girava dall’altra parte”. Ricominciarono a parlarsi nel 1974 per un’intervista, durante la campagna elettorale francese in cui per la prima volta il Partito comunista francese (Pcf) e il Partito socialista (Ps) di François Mitterrand correvano uniti come Union de gauche.

Nel 1974 il gruppo del Manifesto si unì al Pdup, fondando il Partito di unità proletaria per il comunismo, che sarebbe rientrato nel Pci nel 1984. Nel frattempo Enrico Berlinguer, che era diventato segretario del partito nel 1972, aveva messo da parte il compromesso storico con la Dc e ripreso il tema dell’alternativa di sinistra. E c’era stata la sconfitta degli operai della Fiat dopo uno sciopero di 35 giorni, che si era concluso con una manifestazione antisindacale di impiegati e quadri dell’azienda, la marcia dei quarantamila.

Un partito diverso

Con la nascita di Forza Italia nel 1993 e la vittoria di Silvio Berlusconi, Castellina ha visto affermarsi il modello del partito contenitore, la centralità della comunicazione, i leader soli al comando che parlano direttamente a quello che chiamano indistintamente il popolo.

“Oggi incontro molti giovani e quella che definirei la generazione di Genova 2001, con difetti e qualità. Conoscono i conflitti, le singole lotte, ma non la fatica di costruire una forza politica. Ognuno sembra bastare a se stesso”. E forse per questo la sinistra sembra condannata a un eterno gioco dell’oca in cui ogni lancio di dadi porta alla casella dello scheletro, quella che rimanda al via. Non è sempre stato così e la ragione riguarda, secondo Castellina, la capacità della sinistra di stare nella società.

“In quest’anno in cui si celebra il centenario della fondazione del Pci ho spesso citato un aneddoto che coinvolge ­Jean-Paul Sartre. L’intellettuale francese era molto curioso dell’Italia, aveva scambi con la Casa della cultura di Milano ed era in dissenso con il Pcf ma non voleva andargli contro. E quando volle riportare in scena Le mani sporche, opera teatrale contestata dal partito, decise che il posto giusto era l’Italia. Sartre si consultò con Rossana Rossanda, allora responsabile della politica culturale del Pci. È un episodio che spiega bene la differenza tra quel partito e gli altri comunisti. Il Pci non era estraneo ma somigliava alla società italiana, a una parte di essa, naturalmente. Non si spaventava per uno spettacolo di teatro che non rispettava ‘la linea’ perché era nella società, non era un’organizzazione parallela di militanti”.

Il sole invernale è calato e dal Tevere sale un’aria gelida. Ordiniamo i caffè. “Un ultimo ricordo che non c’entra niente con Sartre”, aggiunge. “Le battaglie per l’acqua, le fontanelle, nel quartiere romano di Primavalle: lì disoccupati, manovali, ladri che protestavano si sentivano parte di una comunità, non morti di fame esclusi e arrabbiati. Questo non c’è più oggi e credo che per tornare forte, la sinistra debba mettersi in testa che il lavoro è lungo e faticoso. La buona comunicazione non basta”.

Da sapere
Il conto

Aroma Osteria
Lungotevere Flaminio 62d, Roma

1 Cubotti di baccalà arrostiti € 12,50
1 Black cod arrosto € 20
1 Insalata finocchi, pompelmo e melograno € 5
1 Cicoria ripassata € 4
1 Bicchiere di vino € 4,50
2 Caffè € 4

Totale € 50,00


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