Stefano Fabbri

“Possiamo mangiare una cosa in Fiom”. Non è facile trovare un’ora per chiacchierare con Michele De Palma, 46 anni (“Quindi non ho niente di giovane, come invece si è scritto”), segretario generale dei metalmeccanici della Cgil. Così il pranzo lo facciamo sulla sua scrivania nella sede della Fiom-Cgil a Roma, mangiando un’insalata della mensa. Ma è pur sempre un pranzo e non un incontro formale, quindi avviso De Palma che lo interromperò ogni volta che userà parole del gergo sindacale.

Parliamo del salario minimo e di come il lavoro sia diventato marginale in termini di attenzione e visibilità. E di quanto sia faticoso fare il sindacalista in un paese che negli ultimi venticinque anni è passato da una crisi all’altra. “A volte. Ma quando ottieni un risultato per le persone che rappresenti non è faticoso. Credo che i nostri iscritti sappiano che ci siamo, ci hanno visti ai cancelli nei mesi del covid, quando andavamo a controllare che i protocolli di sicurezza fossero rispettati. E ci vedono durante le crisi o se c’è da dare una mano nei buyout, quando fondano una cooperativa per acquisire e salvare un’azienda dalla chiusura. Eppure da come ci raccontano sembra che fare il sindacalista significhi fare gli affari di pochi e dei funzionari. È una cosa che discende dall’idea del lavoro di cui parlavo prima e da anni di retorica antisindacale. Abbiamo anche noi delle responsabilità, ma non giustificano l’immagine del sindacato che viene trasmessa”.

Sudori freddi

De Palma non parla volentieri di sé. Ci sono questioni più urgenti: la politica nazionale e quella europea sono zeppe di temi che toccano il ruolo del sindacato e il futuro delle fabbriche. E poi vista la freschezza dell’incarico è molto attento a quello che dice.

Dev’essere strano per uno non nato nel sindacato fare il leader del sindacato per eccellenza. “Quando se ne è parlato la prima volta ho fatto finta di non sentire e di non pensarci. Ancora oggi ho i sudori freddi davanti a una responsabilità così. Quando ho cominciato nella Cgil, a Reggio Emilia, venivo dalla politica e forse mi guardavano come il funzionario parcheggiato. Credo di essermi tolto di dosso quell’etichetta lavorando. Penso che il ruolo che svolgiamo sia importante perché ho una preoccupazione che riguarda le persone che rappresentiamo ma è anche personale: se non creiamo un mondo del lavoro includente, che dia prospettive e non faccia sentire chi lavora un ingranaggio, se non affrontiamo la crisi ambientale con coraggio, che mondo lasciamo? Ho una figlia piccola e questa domanda, che era importante anche prima, ha assunto un significato nuovo”. Questa battuta è la più personale del nostro pranzo, De Palma in questo senso è un po’ un uomo di un’altra epoca, quella in cui le frasi delle figure pubbliche non cominciavano con “io”. La necessità di dare risposte alle giovani generazioni sul clima cammina di pari passo con quella di rispondere alla rabbia diffusa nella società italiana.

De Palma è nato a Terlizzi, nella città metropolitana di Bari, ha un accento e anche qualche espressione colloquiale che non ti aspetti dal leader della Fiom, è il primo meridionale a guidare la federazione. Terlizzi torna spesso nella nostra conversazione, non per nostalgia ma perché fa parte del racconto di un’epoca diversa. Anche se è relativamente giovane, il mondo in cui De Palma è cresciuto non aveva i confini sfumati e incerti di quello contemporaneo. Cita la sezione di partito non come un luogo della politica e basta, ma come uno spazio da cui passava la vita sociale e conviviale. E ricorda la chiesa di don Tonino Bello, vescovo pacifista che già malato di cancro partecipò alla carovana della pace a Sarajevo del 1991.

“Girando per l’Italia ti rendi conto di come in luoghi inaspettati tanta parte del valore aggiunto sia ancora industriale. Vale soprattutto per il nordest certo, ma anche per posti dove invece la narrazione è un’altra: a Firenze per esempio, non dico a Piombino o a Pontedera dove uno se l’aspetta. Ma quel mondo del lavoro è come se non esistesse. Non è al centro di politiche e non ha visibilità. Il lavoro non è più considerato un valore aggiunto per te che lo fai e per la società nel suo complesso”.

De Palma ricorda le lodi e le belle parole che sono state spese durante la pandemia sui cosiddetti eroi, sulle persone che svolgono lavori di cura o sono impiegate negli ospedali. “Ma c’erano anche le persone che non hanno smesso un momento di lavorare in fabbrica mentre il resto era fermo. Poi siamo tornati al punto di partenza: l’idea che lavorare non significhi solo guadagnare soldi ma fare qualcosa per tutti – che tu produca un autobus, ti prenda cura di una persona, scriva un software o insegni in una scuola – è di nuovo svanita. Del resto le imprese di questo paese da un certo momento in poi hanno venduto a gruppi stranieri e fondi o hanno puntato sulla finanza. La competizione si è fatta sul costo del lavoro. Sarò sbagliato io, ma non mi riconosco nell’idea che sei un figo se guadagni in pochi minuti con le criptovalute o facendoti sponsorizzare da una marca di cosmetici su Instagram”. Lui le prime 500 lire le ha guadagnate aiutando lo zio d’estate a Terlizzi. “Quel lavoro significava responsabilità, crescita, mi faceva sentire più importante. Era così per me ragazzino ma anche per chi faceva l’operaio, l’infermiere, il conducente di treno”.

Mentre la politica italiana si rifugia in discussioni astratte e i suoi rappresentanti sembrano impegnati in una campagna elettorale permanente, le indicazioni votate dal parlamento europeo sul salario minimo ci costringono a parlare di cose importanti. “Il salario minimo esiste ovunque. In Germania fu introdotto proprio mentre si precarizzava il mercato del lavoro, prendendo atto del rischio che i redditi dei nuovi lavoratori si riducessero. In Italia capita che la contrattazione aziendale deroghi alla norma, cioè che una parte del contratto nazionale non si applicchi. Anche per questo non possiamo che essere favorevoli al salario minimo”, sottolinea. “Partire da una base significa non andare sotto all’asticella fissata per legge. Noi con le imprese che sono disposte a dialogare lavoriamo per far avere a tutti i lavoratori di uno stabilimento le stesse retribuzioni e gli stessi diritti. Ma ci sono lavoratori assunti a tempo indeterminato da agenzie interinali con contratti che prevedono paga e tutele minori. E poi abbiamo o no i salari più bassi d’Europa? C’è o no l’inflazione che rischia di rendere povero anche chi è poco sopra la soglia di povertà?”.

Non puntare i piedi

Sulla transizione all’auto elettrica De Palma prova a guardare avanti. Era tra i manifestanti che scesero in piazza contro il G8 a Genova nel 2001, quando una generazione che non si sentiva rappresentata dalla politica si ribellò al modello neoliberista e capitalistico di globalizzazione e mise al centro la difesa dell’ambiente e la questione dei migranti.

“Che ci fosse un’emergenza climatica e che avrebbe avuto conseguenze su come e cosa produciamo non è una sorpresa, ci sono colossi dell’auto che programmano la transizione da anni. Nel 2005 quasi il 60 per cento delle auto vendute era diesel, nel 2021 siamo poco sopra al 20 per cento. C’è una dinamica in atto. Se non si prevedono investimenti che puntino su innovazione e nuove tecnologie in tutta la filiera, continueremo a produrre auto a motore endotermico che dal 2035 non si potranno più vendere. Non è puntando i piedi per rallentare un processo che si fa rimanere competitivo un settore. Abbiamo impianti per produrre 2 milioni di auto all’anno ma dalle fabbriche ne escono 400mila”.

Il problema non è il passaggio all’elettrico, dice: “Sono anni che è così. Tra l’altro dopo il covid, il blocco del canale di Panama e ora la guerra e le tensioni geopolitiche siamo entrati in una fase in cui le imprese ragionano (e agiscono) per accorciare le filiere produttive, perché non vogliono più dipendere in maniera esclusiva da fornitori lontani. Possiamo pensare di investire, di avere una politica industriale che in alcuni settori produttivi su cui siamo attrezzati faccia innovazione e riporti a casa parti del processo produttivo e lo faccia restare competitivo? Vogliamo formare i lavoratori alle nuove produzioni o rimandiamo semplicemente il momento in cui lo faremo mentre altri paesi sono già al lavoro da tempo? Su questo serve un impegno concreto e visibile del governo. Al momento abbiamo visto molti bonus di incentivo al consumo, il tipo di strumenti che servono per una crisi passeggera. Non siamo in un momento così”.

Il tempo stringe. “Scusa, devo correre in Cgil”. Lo accompagno con uno di quei motorini che si affittano con una app e ci salutiamo davanti alla sede di corso Italia.

Da sapere
Il conto

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Corso Trieste 36, Roma

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