La Lombardia, vicina all’Europa. La regione che produce oltre un quinto della ricchezza nazionale, investe, crea lavoro, produce eccellenze. Il “motore” dell’economia italiana: o almeno, questa è l’immagine che la regione vuole dare di sé, quella che traspare nei comunicati delle associazioni di imprenditori, nei discorsi dei dirigenti lombardi, nei proclami elettorali. La Confindustria lombarda la definisce “una moderna e internazionale knowledge economy”, economia della conoscenza.

Davvero? Dipende tutto dal termine di paragone. La Lombardia è la regione più attiva d’Italia, certo. “È la prima regione manifatturiera d’Italia e la terza d’Europa, rappresenta oltre un quarto delle esportazioni, registra un terzo dei brevetti italiani”, esordisce il documento che la Confindustria della Lombardia ha consegnato ai candidati alle prossime elezioni regionali. Un’indicazione viene dal prodotto interno lordo (Pil): diviso per il numero di abitanti, la media nazionale è di 30mila euro annui mentre in Lombardia è 36 mila (nel 2019). Qui si concentra un quinto delle imprese manifatturiere del paese, e dopo la flessione dovuta alla pandemia i fatturati hanno ripreso a crescere. La disoccupazione è più contenuta che altrove.

La regione continua a dare un’immagine di dinamismo: l’immensa area metropolitana che si espande dal capoluogo lombardo fino alla Brianza e a Bergamo a nordest, o Varese e Gallarate a nordovest, è un continuo di aree urbane inframmezzate a capannoni, fabbriche piccole e medie, imprese di logistica. I punti di forza restano le manifatture, dall’arredamento agli elettrodomestici alla meccanica di precisione, le piccole imprese di alta tecnologia, meccanica o macchinari industriali. Molte sono imprese inserite in una filiera internazionalizzata: come i produttori di componenti per l’industria automobilistica, che esportano in Germania. Poi ci sono le imprese dell’aerospaziale intorno a Varese, produzione militare. E i servizi più o meno avanzati, dal high tech alla logistica.

Il confronto con l’Europa

Da vicino però è tutto meno scintillante. “La realtà è che la Lombardia sta visibilmente rallentando rispetto al contesto europeo” osserva Paolo Maranzano, ricercatore di statistica economica all’università di Milano Bicocca: “Da almeno trent’anni si vanta l’eccellenza lombarda. Ma è un’autonarrazione sempre meno giustificata”.

“C’è molta retorica nei discorsi sul motore d’Italia”, dice Roberto Romano, economista. “Certo, questa è la regione italiana che ha più capacità di generare reddito, e questo è il frutto della storica polarizzazione dell’economia nazionale”. Per demografia e struttura economica però il confronto va fatto con le regioni industriali europee. Con quasi dieci milioni di abitanti (di cui oltre sei milioni tra 15 e 64 anni, l’età lavorativa), la Lombardia è più popolosa della Danimarca e dell’Irlanda e appena più piccola del Belgio. E in effetti è la terza regione europea per reddito pro capite, dopo Baviera e Baden-Württemberg, e la terza per valore aggiunto industriale (in questo caso la prima è l’Irlanda meridionale).

Per crescita, reddito pro capite, nuovi posti di lavoro, tra la città capoluogo e la regione si è creata una frattura

Ma è proprio nel confronto europeo che la Lombardia perde terreno, avvertono Paolo Maranzano e Roberto Romano in una ricerca appena pubblicata sul sito di Radio Popolare. La Lombardia ha rallentato la sua crescita, in particolare dopo le crisi dei subprime e del debito sovrano. Se misuriamo la crescita del prodotto interno lordo, tra il 2008 e il 2020 la distanza dalle regioni forti d’Europa è aumentata e quella dal resto d’Italia è diminuita (il prodotto interno lordo lombardo è cresciuto dell’1,5 per cento annuo meno della Germania, e solo di uno 0,5 per cento più del resto d’Italia). “Cresce di più la Spagna, anche se parte da un livello più basso”, osserva Maranzano.

Soprattutto, la Lombardia è rimasta indietro negli investimenti, la ricerca, l’innovazione: proprio ciò che dovrebbe farne un “motore”. “Gli investimenti sono un indice della fiducia nel futuro, perché le imprese investono se pensano che ne trarranno profitti”, spiega Maranzano: e qui gli investimenti stagnano, segno di incertezza.

Non solo: sul totale degli investimenti, quelli con un contenuto innovativo sono una piccolissima parte. Si chiama “intensità tecnologica”: in Lombardia l’investimento in innovazione è il 7,6 per cento del totale, metà che in Germania (14,8 per cento) e meno che in Francia. “Questo significa che le imprese fanno le spese necessarie a sostituire i macchinari e mantenere la capacità produttiva, ma non a innovare e rispondere a una domanda nuova”, spiega Roberto Romano. Poche imprese continuano a fare ricerca, per esempio quelle del settore aerospaziale. Ma nell’insieme, la Lombardia spende in “ricerca e sviluppo” appena l’1,4 per cento del suo prodotto interno lordo: metà del Baden-Württemberg, meno della Francia. Di conseguenza anche la dinamica del “valore aggiunto” prodotto dall’economia lombarda declina, rispetto ai confronti europei. Del resto, anche la Confindustria riconosce “un certo ritardo” nella ricerca. Altroché “economia della conoscenza”.

L’apparenza inganna

Senza contare che nella stessa Lombardia, “c’è un abisso tra Milano e tutto il resto”, fa notare Claudio Mezzanzanica, economista e imprenditore. Per crescita, reddito pro capite, nuovi posti di lavoro, tra la città capoluogo e la regione si è creata una frattura: “La produzione industriale è nelle province, mentre a Milano si concentra il lavoro cosiddetto della conoscenza: dalla contabilità delle imprese al marketing, le indagini di mercato, la ricerca, il design. Oltre ovviamente alla finanza e a ciò che vi ruota attorno, gli studi legali e tutto il resto. Ne è un segno l’immobiliare, con i prezzi degli affitti alle stelle. Qui il motore sono la finanza e la rendita”.

Ma ecco un altro segno di debolezza strutturale: il peso del lavoro dipendente nel reddito della Lombardia è marginale, appena il 43 per cento (nel 2020), molto meno che in Germania (55 per cento) o in Francia. “Per contro, i profitti da capitale sono stabili, mentre si dilatano le rendite”, osserva Romano.

Già, il lavoro. In Lombardia l’occupazione resta più alta della media italiana, ma anche qui l’apparenza inganna. L’occupazione è rimasta stabile negli ultimi vent’anni, cioè i nuovi posti di lavoro compensano appena quelli persi. La domanda di lavoratori “ad alto contenuto di sapere” cresce; molte aziende lamentano di non trovare gli addetti qualificati di cui hanno bisogno, si favoleggia di imprese che offrono ai dipendenti perfino il servizio di lavanderia purché non se ne vadano. Ma resta una nicchia. Più in generale, “solo un quinto dei nuovi contratti di lavoro è a tempo indeterminato; nell’80 per cento dei casi invece si tratta di posizioni a tempo determinato, e per una durata sempre più breve”, riassume Roberto Romano. Scompare il lavoro “buono” e aumenta quello atipico, interinale, intermittente, precario, che dilaga ovviamente nelle mansioni meno qualificate, e scende il numero di persone che hanno un lavoro o lo cercano (la popolazione “attiva”): nulla di nuovo, e anche in questo la Lombardia non si discosta dal resto del paese.

La sola novità è che mentre l’occupazione maschile resta stabile, aumenta quella femminile. È importante – anche se resta da capire se sia lavoro qualificato o se, al contrario, ci siano più donne dove aumenta la precarietà.

Intanto, l’economia reale è quella che traspare dai notiziari regionali in un giorno qualsiasi di inizio febbraio 2023: sentiamo che le operaie di un noto salumificio sono in agitazione, lavorano da quindici anni con contratto precario. Il riassetto dell’Amazon porta a chiudere un centro di logistica in provincia di Bergamo. Scioperano gli addetti ai servizi di terra all’aeroporto di Malpensa, che rischiano di vedere decurtati salari e diritti in conseguenza dell’ennesimo cambiamento di appalto, il quarto in dieci anni. Ancora: al congresso regionale della Cgil, il professor Nando Dalla Chiesa anticipa il prossimo rapporto dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’università di Milano, dove la Lombardia è la seconda regione italiana per presenza della ‘ndrangheta. L’Unione dei comuni e comunità montane chiede alla regione di “investire su un turismo alpino che duri tutto l’anno” invece di riversare milioni di euro solo sulla neve artificiale in poche località sciistiche.

“Descrivere la Lombardia come un sistema economico forte ed europeo è quanto di più falso”, insiste Roberto Romano. Invece di analizzare le debolezze strutturali, i dirigenti lombardi “preferiscono litigare su come accaparrarsi le risorse pubbliche”. Già, la spesa pubblica: “L’autonomia differenziata è questo, il ripiego su di sé: invece di progettare in grande per tutto il paese, ogni regione si fa le sue cose. La Lombardia pensa di poter fare meglio delle altre, ma non è più vero”.

Prendiamo la sanità, che rappresenta il novanta per cento della spesa pubblica regionale: “La cosiddetta eccellenza lombarda è fondata sulla presenza privata e sull’accentramento dei servizi in grandi hub nelle aree metropolitane, a scapito dei presidi territoriali: ma con la pandemia abbiamo visto cosa significa”, fa notare Paolo Maranzano.

Ormai da una ventina d’anni “i dirigenti lombardi puntano solo sui grandi eventi, dall’Expo alle prossime olimpiadi invernali, che portano finanziamenti”, concludono Romano e Maranzano: “Ma non si vedono idee per favorire una transizione produttiva, la ricerca, l’innovazione”. Altro che “motore”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it