La lettera è insolita. Firmata da un gruppo di cittadini di Casale Monferrato, in Piemonte, è diretta alle autorità accademiche dell’università di Yale, prestigioso ateneo degli Stati Uniti. “Siamo profondamente feriti”, esordisce. Si chiede come sia possibile che Yale abbia concesso una laurea ad honorem a un imprenditore “che ha consapevolmente distrutto l’ambiente nel nostro territorio (…), ha consapevolmente causato la morte prematura di migliaia di persone per un raro tumore causato dall’amianto, il mesotelioma, negli anni settanta del secolo scorso”.

La lettera è firmata dall’Associazione dei familiari e vittime dell’amianto (Afeva) di Casale Monferrato e l’imprenditore chiamato in causa è lo svizzero Stephan Schmidheiny, già proprietario della Eternit, azienda multinazionale specializzata nella fabbricazione di cemento-amianto con stabilimenti in trentacinque paesi tra cui l’Italia: quello di Casale Monferrato era il più grande e vetusto. Nel 1986 Schmidheiny lo ha chiuso e ha messo in fallimento la sua filiale italiana: ma non ha speso un soldo per bonificare il sito né risarcire le vittime dell’amianto, sottolinea quella lettera. Eppure, nel 1996 Yale ha accettato una donazione da Schmidheiny, e gli ha concesso una laurea onorifica “per il suo ruolo nel promuovere la gestione dell’ambiente globale”.

Non è la prima volta che le vittime della Eternit chiedono all’università statunitense di revocare quel titolo e restituire a Schmidheiny le sue donazioni, finora invano. “Abbiamo saputo però che l’università sta riesaminando la sua politica”, spiega Assunta Prato, che fa parte dell’Associazione dei familiari e vittime dell’amianto a Casale Monferrato.

Il disastro industriale più ampio del secolo

La missiva è indirizzata alla direttrice generale di Yale, Susan Gibbon, al presidente dell’ateneo, Peter Salovey, e al comitato interno per la revisione delle donazioni. Porta la data di marzo 2022, è stata consegnata a Yale il 5 ottobre dall’avvocato statunitense Christopher Meisenkothen, che in questa vicenda rappresenta a titolo gratuito l’associazione di Casale Monferrato. Non ha ricevuto per ora alcun segno di risposta. Quasi a confermare che quello dell’amianto è uno dei disastri industriali più ampi, conclamati, ma passati sotto silenzio del secolo.

Riassumiamo. “La nostra città ha trentacinquemila abitanti e per 80 anni è stata sede di un grande stabilimento di amianto, che finora ha provocato la morte di circa tremila persone tra lavoratori e residenti”, spiega la lettera indirizzata a Yale. Stephan Schmidheiny, quarta generazione di una delle più importanti famiglie industriali svizzere, ha ereditato la Eternit e ne è diventato amministratore delegato nel 1976.

Allora non si parlava molto dei rischi dell’amianto, anche se negli Stati Uniti e nel Regno Unito erano diventate obbligatorie norme per proteggere i lavoratori. Solo negli anni ottanta anche in Italia hanno cominciato a circolare notizie sull’asbestosi e sul mesotelioma, tumore alla pleura provocato dall’inalazione delle microscopiche fibre di amianto.

Ai dirigenti aziendali fu consegnato un vademecum su come rispondere a lavoratori, sindacalisti, giornalisti, e minimizzare i problemi

Oggi sappiamo che il padrone della Eternit era consapevole del rischio dell’amianto. La prova è emersa molto più tardi, quando la procura di Torino l’ha rinviato a giudizio per disastro ambientale doloso; al processo, cominciato nel 2009, furono ammessi come parte lesa i familiari di circa tremila persone che lavoravano o abitavano presso gli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato, Rubiera (in Emilia-Romagna) e Bagnoli, in Campania.

In tribunale furono presentati i documenti di un incontro tra i dirigenti delle filiali europee della Eternit, presieduto da Schmidheiny nel giugno 1976, in Germania. Schmidheiny spiegava che il cemento-amianto era potenzialmente pericoloso, e parlava di come rispondere alle preoccupazioni sull’amianto. Molti di quei manager apprendevano allora cosa fosse il mesotelioma e che l’asbestosi era considerata una malattia professionale. Schmidheiny commentò che non bisognava cedere al panico: “I nostri manager sono rimasti scioccati. Non deve succedere lo stesso ai lavoratori”. Così fece distribuire ai dirigenti aziendali un vademecum su come trattare con lavoratori, sindacalisti, giornalisti, con una serie di risposte formulate in modo da minimizzare i problemi.

Dunque l’azienda sapeva a quale rischio esponeva i propri dipendenti: ma la produzione è continuata per altri dieci anni. “Se avessero preso allora delle contromisure, molte vite si sarebbero potute salvare”, commenta con amarezza Assunta Prato: “Forse non quella di mio marito, morto nel 1996 a meno di cinquant’anni, ma di sicuro molti altri”. L’amianto infatti rappresenta un pericolo lento; tra quando le microscopiche fibre sono inalate e si depositano nei polmoni, a quando si manifesta la malattia possono passare venti o trent’anni.

Sta di fatto che Stephan Schmidheiny si è preoccupato di gestire la comunicazione aziendale, ma non del rischio per i lavoratori e gli abitanti intorno alle sue fabbriche. Durante il processo, un perito del tribunale testimoniò che nello stabilimento di Casale Monferrato la situazione era “catastrofica”. La polvere biancastra dell’amianto era ovunque, generazioni di lavoratori e cittadini l’hanno respirata: ma questo è ormai ampiamente documentato.

“Una prestigiosa università ha aiutato un miliardario dell’amianto a rifarsi l’immagine”

Nel 2012 Stephan Schmidheiny è stato condannato in primo grado dal tribunale di Torino a 16 anni di reclusione per “disastro ambientale doloso permanente” e “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”. La condanna è stata confermata in appello, aumentata a 18 anni. La corte aveva anche ordinato risarcimenti, mai pagati. Nel 2014 la cassazione ha confermato la colpevolezza ma ha dovuto prosciogliere l’imputato, perché il reato ambientale era caduto in prescrizione. La cosa fece scalpore; l’ingiustizia sembrava evidente. Poi però sul caso Eternit è tornato il silenzio.

La lettera alle autorità accademiche di Yale ricorda queste circostanze, e anche come nel 1984 l’azienda avesse assunto un’azienda milanese di pubbliche relazioni per fare in modo che il nome del suo proprietario rimanesse al riparo. “Schmidheiny ha investito per rifarsi l’immagine di imprenditore verde. Ma non ha investito un centesimo per riparare al disastro su cui pure la sua famiglia ha costruito una fortuna”, commenta Assunta Prato.

In effetti, fin dalla fine degli anni ottanta Stephan Schmidheiny ha cominciato a finanziare gruppi per la conservazione della natura in Brasile. Ha scritto un libro sulla gestione responsabile delle risorse. Ha fondato il World business council for sustainable development, forum mondiale di imprenditori “per lo sviluppo sostenibile”, e nel 1992 ha partecipato al vertice della Terra organizzato dalle Nazioni Unite a Rio de Janeiro. William Reilly, ex capo dell’Agenzia statunitense per la protezione ambientale, lo presentò come un imprenditore del futuro. È stato Reilly a proporlo per una laurea ad honorem all’università di Yale, a cui Schmidheiny ha fatto generose donazioni nel 1996 e nel 1997 (ma non è noto a quanto ammontino: a definirle “generose” sono i comunicati della stessa università).

La prima lettera dell’Associazione delle famiglie di Casale Monferrato a Yale risale al 2013, dopo la sentenza d’appello che confermava la condanna a Schmidheiny: chiedevano di “riconsiderare” l’onoreficenza data a “un criminale che per mera logica di profitto ha per decenni causato gravissimi danni” a migliaia di persone. La richiesta era sostenuta da una cinquantina di ex studenti dell’ateneo, quasi tutti i diplomati della classe 1964.

“Una prestigiosa università ha aiutato un miliardario dell’amianto a rifarsi l’immagine, quando sapeva che la giustizia italiana che sarebbe presto arrivata a incriminarlo”, commenta Barry Castleman, esperto in salute pubblica e testimone al processo di Torino che si conclude con la condanna di Schmidheiny.

“Disprezzo per i tribunali italiani”

Finora Yale ha rifiutato di discutere il titolo attribuito a Schmidheiny, spiegando che mai un titolo onorario è stato revocato: cosa non più vera da quando nel 2019 ha tolto il titolo concesso all’attore e conduttore televisivo Bill Cosby, condannato per molestie sessuali. La direzione accademica inoltre sostiene che il procedimento giudiziario in Italia “non soddisfa gli standard del giusto processo”, perché è avvenuto in contumacia. In effetti l’imprenditore svizzero non si è mai presentato in aula: ma è stata una sua scelta, ha preferito farsi rappresentare da un nutrito collegio di difesa. Secondo Castleman, Yale ha mostrato così il suo “disprezzo verso i tribunali italiani”.

Ora però la stessa Yale è sotto pressione. L’anno scorso una nota docente ha annunciato le dimissioni dopo che un importante donatore aveva cercato di influenzare il suo insegnamento. La cosa ha fatto scandalo e ha spinto l’ateneo statunitense a formulare una nuova politica delle donazioni, che andranno restituite se viene riconosciuto un “intento disonorevole”. Il caso Schmidheiny, osserva Castleman, “è un primo test di questa nuova politica”.

Intanto la vicenda Eternit non è conclusa. Nel 2018 Stephan Schmidheiny è stato rinviato a giudizio in Italia con la nuova accusa di “omicidio volontario” di lavoratori e cittadini residenti intorno ai suoi stabilimenti. Il capitolo “Eternit-bis” è suddiviso in quattro processi, per competenza territoriale. La prima condanna è arrivata nel 2019 a Torino; la seconda a Napoli per un operaio ucciso dall’amianto a Bagnoli.

Il procedimento più corposo però è quello in corso a Novara per la morte di 392 persone a Casale Monferrato, sessantadue operai e trecentotrenta residenti. È qui che tra ottobre e novembre i periti della difesa hanno cercato di smontare le tesi dell’accusa sulle cause della morte di quegli operai e cittadini.

“Per noi è una vera sofferenza sentire affermare che i medici di Casale esagerarono con le diagnosi e che non si può dire se fosse mesotelioma o altro”, dice Assunta Prato, che è andata di nuovo a testimoniare: suo marito è tra quei 392 casi. “È una lotta impari. Un imprenditore miliardario paga ottimi avvocati e periti disposti a negare quanto è stato fin qui accertato da tanti scienziati. Può pagare agenzie di comunicazione per orientare a suo favore i mezzi d’informazione. Sappiamo che quelle affermazioni sono confutabili, ma intanto insinuano il dubbio nelle giurie”.

Il processo Eternit-bis si avvia a conclusione, nei primi mesi del 2023 si attendono le requisitorie dell’accusa e della difesa. L’imputato, anche questa volta, ha annunciato che non sarà in aula. “Yale ha venduto a Schmidheiny una comoda fuga dalle responsabilità verso la gente di Casale Monferrato e delle altre comunità devastate”, conclude la lettera delle famiglie delle vittime. Anche questa volta numerosi ex studenti dell’ateneo hanno aggiunto la propria voce: “È questo che vogliamo celebrare come gestione esemplare dell’ambiente?”, chiedono, in una nuova lettera all’ateneo. “Yale dovrebbe restituire le donazioni di Schmidheiny e revocare la sua laurea” e “dovrebbe farlo ora, senza aspettare che lo scandalo pubblico renda la decisione inevitabile”.

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