“L’unica cosa per cui ci si può sentire in colpa è cedere terreno riguardo al proprio desiderio”, diceva Lacan. Mark Fisher, uno dei più importanti teorici della nostra contemporaneità, ha sottolineato come per lo psicanalista francese il desiderio fosse sostanzialmente “desiderio di desiderare”, per poi aggiungere che “la distonia capitalista della cultura del ventunesimo secolo non è qualcosa che ci è stata semplicemente imposta: è stata costruita attraverso l’appropriazione dei nostri desideri”.

Da qui la celebre teoria di Fisher sulla perdita del futuro (anzi, dei futuri, al plurale) e il suo indagare l’hauntologia, ossia in un certo senso le “tracce fantasma” di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere, sempre nell’ottica di cercare possibili strade per arrivare una società migliore. Gli spettri che non muoiono mai, insomma, ma sono costretti a ritornare per provare a mettere in discussione il mondo del “realismo capitalista”.

Ritorno alle istanze di realtà

La visione di Mark Fisher, che si è suicidato nel 2017 e questa storia avrebbe almeno potuto cominciare a raccontarla, si adatta in maniera sorprendente alla parabola assunta da una manifestazione come la Biennale di architettura di Venezia, che nel corso delle ultime edizioni ha compiuto un percorso per molti versi eccezionale di ritorno alle istanze della realtà, al confronto stringente con i veri problemi del pianeta, alla proposta di soluzioni concrete, spesso ispirate da una visione profondamente sociale dell’architettura stessa, intesa come un mezzo e non come un punto d’arrivo.

Insomma una rivoluzione copernicana rispetto alla pubblicistica dell’epoca delle “archistar”. Ma ciò che più colpisce è il tema del desiderio che l’ex presidente della Biennale Paolo Baratta ha posto per anni al centro del proprio lavoro, con l’ambizione di fare dell’istituzione veneziana una vera e propria “macchina del desiderio”, in grado di stimolare la domanda di architettura (ma vale anche per l’arte, la musica, il cinema, la danza e il teatro) e di farne qualcosa in grado di agire “come strumento della vita sociale e politica”. È una postura radicale, fortissima, ben nascosta sotto la rassicurante veste istituzionale, ma in fondo è come una deflagrazione.

Le tre ultime edizioni hanno ribaltato il tavolo e con esso il nostro stesso modo di guardare alla progettazione

Il desiderio di architettura, insomma, come carburante di una ricerca che porta la Biennale – nella visione dell’attuale presidente Roberto Cicutto, che ha proseguito e aggiornato la linea Baratta – a essere una sorta di “mappa geopolitica del mondo, che mette insieme le realtà più diverse dal punto di vista politico, economico e della condizione umana”. E su questa mappa l’architettura ha inciso, sia sotto forma di rilancio del desiderio sia di vera e propria disciplina chiamata ad affrontare i problemi del mondo, quello fuori del nostro rassicurante (ma davvero? E fino a quando?) cortile di casa.

Il risultato di questa tensione intellettuale e politica sono state le tre ultime edizioni della Biennale architettura che hanno ribaltato il tavolo e con esso il nostro stesso modo di guardare alla progettazione.

Nel 2016 Alejandro Aravena ha raccontato il “fronte” del mondo e le storie di coloro che “sono stati capaci di una prospettiva più ampia”, di un allargamento dello sguardo sui possibili ambiti di risposta del lavoro dei progettisti. Partendo dal presupposto che “l’architettura si occupa di dare forma ai luoghi in cui viviamo. Non è più complicato, né più semplice di così”. Ma in società e ambienti sempre più complicati la sfida diventa automaticamente molto pregnante.

Nel 2018 Yvonne Farrell e Shelley McNamara hanno lanciato il manifesto di “Freespace”, lo spazio libero, nella quale all’architettura viene chiesto di agire al meglio il proprio ruolo sociale. “Siamo convinte”, scrivevano le due irlandesi, “che tutti abbiano diritto a beneficiare dell’architettura. Il suo ruolo, infatti, è offrire riparo al corpo ed elevare lo spirito”. Attraverso esempi di “generosità e sollecitudine” le due curatrici hanno voluto sottolineare “la capacità fondamentale dell’architettura di curare e promuovere un contatto significativo tra le persone e lo spazio”.

Nel 2021, infine, in quella che sarebbe dovuta essere la Biennale del 2020 pandemico, Hashim Sarkis ha preso il toro per le corna con un progetto (nato prima della crisi globale, ma da questa reso ancora di maggiore attualità) incentrato sulle possibilità di vivere ancora insieme. Sui modi in cui questa idea è stata tradotta in realtà, pur a fronte delle fiamme (sanitarie, climatiche e geopolitiche) che bruciano sempre più intensamente intorno a noi. “Non possiamo più aspettare che i politici propongano un percorso verso un futuro migliore. Mentre la politica continua a dividere e isolare, attraverso l’architettura possiamo offrire modi alternativi di vivere insieme”.

Ancora il futuro, lo spettro hauntologico di Fisher. Ancora il futuro, come forma di apprendistato alla speranza.

Un nuovo tassello

Sulla scorta di queste biennali – manifestazioni di come a Venezia siano stati capaci di cogliere gli irrinunciabili cambiamenti di postura del mondo della cultura davanti a sé stesso e alla possibilità di restare propri contemporanei, senza perdere nessuna compostezza né autorevolezza – anche quella che si aprirà nel maggio 2023 si annuncia come un nuovo tassello di un grande progetto di ricerca nel segno della consapevolezza, sia della grandezza del mondo, sia della magnitudo delle sfide che abbiamo di fronte.

La curatrice Lesley Lokko, architetta, docente e scrittrice ghaneana-scozzese, si è calata nella sua Biennale in maniera molto diretta, scegliendo di intitolarla “Il laboratorio del futuro”, e qui il cerchio del ragionamento partito da Mark Fisher sembra essere arrivato al giusto compimento. Le domande sul presente e sul capitalismo, sulle prospettive perdute e sul senso della possibile azione politica, nella lettura di Lokko, ci portano in Africa, continente che, per demografia, crescita, questioni ambientali e di salute, è esso stesso il laboratorio del futuro.

E da lì, dal luogo nel quale non si può più fingere che equità razziale e giustizia climatica non siano due facce della stessa medaglia, partirà il racconto della diciottesima mostra internazionale di architettura, un racconto che si fonda su un presupposto chiave: “Qui in Europa parliamo di minoranze e diversità, ma la verità è che le minoranze dell’occidente sono la maggioranza globale: la diversità è la nostra norma”. Diversità che è ovviamente anche complessità, problematicità, confronto con quelle che sono, per citare una formula di Al Gore, “scomode verità”.

Lesley Lokko, e un altro mattoncino del ragionamento complessivo sembra andare a incastrarsi nella sua giusta posizione, parla di un momento nel quale guardiamo agli altri con “fiducia e desiderio”. Parla di due macrofenomeni che si caratterizzano, come gli iperoggetti del filosofo Timothy Morton, per essere al di fuori della nostra capacità di comprenderli e soprattutto controllarli: la decolonizzazione e la decarbonizzazione. Parla di “reti di potere in continua espansione e sovrapposizione” delle quali siamo chiamati a essere consapevoli, così come del prezzo che paghiamo per il privilegio e il controllo. “Parliamo di spazi democratici”, scrive Lokko, “di spazi pubblici, di energia pulita e di spirito umano come se le condizioni che rendono tutto ciò possibile e raggiungibile fossero universali e non comportassero una costo spesso terribile per i nostri simili e per il mondo non umano e naturale”.

Un college di formazione

La lucidità di una frase del genere, da sola, potrebbe essere il faro di complessità dell’intera Biennale; potrebbe essere la chiave intorno alla quale sostenere e contemporaneamente fare crollare l’intera volta; potrebbe essere, anzi già lo è, la dimostrazione del modo in cui a Venezia si sia compreso fino in fondo quanto vasto e pericoloso sia il terreno di analisi anche delle mostre di architettura, una disciplina che è chiamata forse più di tutte le altre praticate in Biennale a prendere di petto la realtà. Con l’obiettivo – sottolineato dal presidente Cicutto – di “parlare al mondo, che è la vera ragione per cui un curatore si assume la responsabilità di fare una mostra internazionale”.

Altra novità a cui in Biennale tengono molto è l’attivazione del primo college per l’architettura: “Ovviamente non sarà un momento per formare architetti a costruire edifici”, ha detto ancora il presidente, “ma sarà un college nel quale si discuterà di come concepire l’architettura oggi, temi che già erano stati toccati nella Biennale di Aravena. Io penso che in questo college si metterà l’accento su come si possa accedere e parlare di architettura, ma soprattutto comunicarla e insegnarla. Quindi credo ci sia una continuità con le precedenti mostre, ma anche un passo avanti”

C’è un altro punto che oggi, a qualche mese ancora dall’apertura fissata per il 20 maggio, ha senso sottolineare ed è legato a un’altra parola che, come “laboratorio” e “futuro”, spesso viene abusata nell’utilizzo: “speranza”. Per Lesley Lokko questa è “una moneta potente”, perché “essere fiduciosi significa essere umani”. La fiducia da sola però non basta: se parliamo di una società che sappia essere plurale e inclusiva non possiamo limitarci a una evocazione. Le proposte devono andare oltre il miraggio e dare un’esistenza reale alla città meravigliosa che abbiamo visto baluginare dal deserto.

E allora arrivano gli architetti, coloro che “storicamente sono attori chiave nel tradurre le immagini in realtà”. Il punto è proprio qui: qui si sono incrociati di nuovo tutti i sentieri che abbiamo provato ad aprire; qui si è fermato anche Mark Fisher, che forse ora si vedrà restituire un pezzo dell’idea di futuro; qui, in questa metafora dell’idealismo in versione pratica e africana, si sente vibrare la domanda di contemporaneità (e il desidero con cui la poniamo) intorno alla quale vogliamo provare a immaginare delle possibilità ulteriori. E questa sensazione la possiamo chiamare in tanti modi, ma nei fatti ne ha uno solo di nome, ed è esattamente speranza.

Il laboratorio del futuro, diciottesima mostra internazionale di architettura, Biennale di Venezia, 20 maggio - 26 novembre 2023

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