Riaprono le scuole e quello che si annuncia sarà un anno difficile. Difficile per il grado di sofferenza di ragazze e ragazzi, difficile per chi insegna, perché i problemi irrisolti della scuola sono stati malamente affrontati e sono quasi del tutto assenti in questa campagna elettorale, difficile perché i primi fondi del Pnrr rischiano di andare dispersi in mille rivoli senza una strategia di lungo periodo, capace di contrastare dispersione scolastica e povertà educative a partire dai territori più degradati e bisognosi di interventi lungimiranti.

E allora cosa può fare chi insegna?

Molto, moltissimo, perché sappiamo che nelle esperienze che si vivono in classe la principale differenza è data dalla qualità umana, dall’apertura al mondo, dalla curiosità verso ragazze e ragazzi e dal desiderio di mettersi in ricerca e non dare nulla per scontato da parte di chi insegna.

Con i tempi che corrono e i pessimi umori che circolano la prima domanda da farci credo dovrebbe essere questa: ciò che sto proponendo a ragazze e ragazzi crea comunità o contrae lo spirito di gruppo? Provoca competitività e indifferenza alle sorti altrui o genera apertura verso compagne e compagni?

Questa domanda non riguarda solo il metodo, la socialità, lo star bene in classe, ma mette in luce l’idea di conoscenza e di ricerca che costruiamo giorno dopo giorno insieme, cioè il senso stesso dello studiare e dello stare a scuola, il senso che può avere costruire collettivamente una relazione viva e vivace con arte, scienza e cultura.

In una società avvilita da tante disparità e distanze, che troppo spesso si trasformano in discriminazioni, lo stare insieme tra diversi, come accade in molte scuole primarie e medie, costituisce il primo incontro e la prima esperienza di apertura all’altro e di democrazia, il primo luogo in cui possiamo sperimentare il pensare insieme.

Ragionare in proprio

Il passaggio successivo è accorgerci che pensando insieme capiamo di più, perché nel confronto costante tra opinioni differenti impariamo ad argomentare e a ragionare.

Ricordo David che in quinta elementare, nel corso di un’appassionata discussione nata a partire dalla lettura del mito della caverna di Platone, disse “è meglio che tu pensi la tua”. Con quell’affermazione sottolineava quanto il confronto con gli altri stimolato dal testo di Platone lo aveva aiutato a capire meglio cosa pensava e come elaborava i propri ragionamenti, lo aveva aiutato a misurare il grado di autonomia e libertà che poteva raggiungere, e questo credo dovrebbe essere il principale obiettivo di ogni opera educativa.

“In tutta la mia carriera credo di avere rispettato ciò che c’è di più sacro nel ragazzo: il diritto di cercarsi una propria verità”. Così rispondeva Louis Germain, il maestro elementare che Albert Camus ebbe la fortuna di incontrare da bambino ad Algeri, alla lettera in cui lo scrittore lo ringraziava dopo avere ricevuto il Nobel. “Il primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei”, scriveva Camus, perché “senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo”.

Rallentare, soffermarsi, sostare a lungo attorno a domande aperte e dare dignità, spazio e respiro al ragionare in proprio di ciascuna e ciascuno è la miglior risposta a un mondo avvilito da semplificazioni, aggressività e intolleranze crescenti, da un’idea di patria e di confini che contrasta con il principio di uguaglianza universale che è alla base della nostra costituzione.

È qui che nella scuola possiamo svolgere il nostro compito più prezioso, affrontando la fatica di navigare controvento promuovendo, stimolando e sperimentando continuamente il dialogo tra diversi, come luogo privilegiato di costruzione delle conoscenze. Le conoscenze, infatti, non si possono trasmettere, si possono soltanto costruire, e ciascuno le assembla e le riordina a modo suo. Per questo è così difficile raggiungere e coinvolgere tutte e tutti. Per questo insegnare è un mestiere artigiano assai complesso, la cui qualità si misura nell’attenzione ai dettagli.

Ma per arrivare a tutto ciò dobbiamo darci tempo, creare contesti in cui si sperimenti un ascolto reciproco attento e affinare le nostre capacità di dare dignità al pensiero di ciascuno. Dobbiamo fornire e imparare a utilizzare diversi linguaggi sapendo metterci in relazioni e cogliere le grandi trasformazioni che attraversano le giovani generazioni nella loro relazione col proprio corpo e con gli altri, con le parole e le immagini, con musiche, giochi e ritmi che creano nuove capacità e nuove difficoltà di attenzione.

Nella grande crisi che attraversano economia e politica, clima ed energia, pace e convivenza tra diversi, si aprono enormi campi di indagine da sperimentare. La scuola dovrebbe sempre ambire a essere il luogo dove il passato entra in tensione con il presente e pensieri concepiti in altre epoche possono aiutarci a illuminare con luce obliqua le tante oscurità e incertezze dell’oggi, riuscendo a inquietarci e a stupirci.

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