“Nei grandi centri urbani occidentali, oltre alla crescita della fluidità del senso di appartenenza e dell’anonimato, il calo della pratica religiosa, determinato da varie cause interne ed esterne alla chiesa, ha prodotto la diminuzione dei fedeli e delle risorse finanziarie, e di conseguenza ha ridotto drasticamente il bisogno di chiese. A questo si aggiunge la situazione del clero, con molti sacerdoti in età avanzata e pochissime ordinazioni. Tutto ciò porta alla decisione di accorpamento, integrazione o fusione di parrocchie, con il conseguente sottoutilizzo e abbandono di chiese”.

È quanto si legge nelle linee guida per la dismissione e il riutilizzo delle chiese messe a punto dal dicastero vaticano per la cultura nel 2018. La progressiva ritirata del cristianesimo in Europa, Italia compresa, ha infatti conseguenze rilevanti anche sull’immenso patrimonio culturale ecclesiastico.

Se la sua conservazione per lunghi secoli è stata infatti garantita dalla presenza di un clero diffuso, di congregazioni religiose che alimentavano la vita di monasteri, conventi, chiese, basiliche, e dalle comunità che vivevano intorno a quei luoghi, ora non è più così. Il problema, per un paese come l’Italia, la cui storia si intreccia in modo inestricabile con quella della chiesa cattolica, è che patrimonio culturale e beni ecclesiastici spesso coincidono.

Il tempo stringe: secondo dati diffusi dallo stesso vaticano, il 50 per cento dei monasteri chiuderà i battenti in meno di dieci anni, mentre l’invecchiamento dei preti e la scarsità di nuove vocazioni descrivono uno scenario destinato a mutare il paesaggio sociale di un paese tradizionalmente cattolico come il nostro: chiese e conventi si svuoteranno.

A ciò va aggiunto il progressivo spopolamento di paesi e piccoli borghi, un dato demografico generale del quale occorre tenere conto. In un simile contesto, inevitabilmente, vengono dismesse, vendute o abbandonate chiese, edifici storici, monasteri, parrocchie: una miriade di strutture edilizie storiche, spesso vecchie di secoli che punteggiano la penisola da un capo all’altro. Un patrimonio che rischia di andare, almeno in parte, perduto. O utilizzato per rimpinguare le casse di qualche diocesi trasformando un’antica struttura conventuale, una chiesa in disuso, una casa per religiosi rimasta vuota o quasi, in un resort turistico a cinque stelle, in un centro commerciale, in un bar o in una discoteca.

Si pensi che in Italia le chiese sono ben 67mila, mentre si contano circa mille musei ecclesiastici a partire da quelli diocesani e passando per musei parrocchiali, missionari, collegati a santuari, di ordini religiosi. Il che implica una quantità eccezionale di beni artistici, arredi, organi, affreschi, quadri, altari, opere di inestimabile valore o semplici testimonianze di fede popolare, del passaggio di epoche e di storie.

Un convento non è solo una chiesa, fa parte del sistema urbano, sociale e culturale

Ma non siamo solo di fronte a un problema di conservazione di oggetti e strutture architettoniche. Il nodo è anche la relazione che c’era o esiste ancora tra questi edifici e le persone che ci vivono intorno. Massimo Bottini, architetto, presidente della sezione di Italia nostra di Valmarecchia, membro dell’Alleanza per la mobilità dolce (Amodo), ha diretto il restauro del convento di Santa Caterina e Barbara a Sant’Arcangelo di Romagna (grande più di 5mila metri quadri), a pochi chilometri da Rimini.

Un intervento che ha cercato di salvaguardare il genius loci della struttura (dove ancora vivono delle suore) come luogo di accoglienza per turisti e viaggiatori, di meditazione, di ricerca spirituale e anche come laboratorio di esperienze – artigianali e di gestione delle risorse naturali – aggiornato ai tempi, in cui le tradizionali attività svolte dalle religiose s’incontrano con la città laica.

“Un convento non è solo una chiesa, è qualcosa che fa parte del sistema urbano, sociale e culturale delle nostre città. Quindi non sto parlando delle mura, dei campanili, delle opere d’arte. Sto parlando della comunità che lì decide di vivere insieme, per esempio secondo i principi benedettini per i quali è fondamentale ospitare il forestiero. In questo senso dobbiamo ricordarci che noi stessi spesso siamo forestieri nelle nostre città” spiega Bottini.

“Quel mondo è un luogo dove effettivamente le persone, oltre a ritrovare se stesse, possono entrare in contatto con quella comunità religiosa, ma anche con quella parte di città e con il suo passato”. In un complesso monastico come questo è nata la prima farmacia del paese e sono stati creati sistemi di raccolta dell’acqua piovana. Si tratta dunque di un pezzo di storia viva che interloquisce con il presente.

“Quanti altri conventi come quello di Santa Caterina e Barbara abbiamo in Italia? Parliamo di rilancio dei borghi, dell’identità, dei luoghi, ma prima bisogna entrare in sintonia con questi luoghi, poi possiamo fare qualsiasi tipo di restauro” prosegue Bottini.

Senza persone

Per Bottini, la prima ragione dell’incuria in cui versano tanti edifici storici non è da ricercarsi solo nella mancata realizzazione dei necessari restauri. Tutto questo è avvenuto “anche perché quei luoghi non erano più abitati dalle persone e quindi, se nessuno più controlla la comparsa di una macchia o di una crepa, è chiaro che questi luoghi sono destinati a collassare, ma collassano prima di tutto nella memoria e nel sentimento delle persone”.

Un approccio condiviso da don Luca Franceschini, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Conferenza episcopale italiana (Cei). “Il rapporto con le comunità fa parte del vissuto degli edifici. Io vengo da una diocesi (Massa Carrara e Pontremoli) dove ci sono molti piccoli paesi ormai quasi disabitati. Se però c’è un piccolo numero di persone che si prende cura degli edifici, si accorge pure se c’è qualcosa che non va e sono loro che in qualche modo presentano le urgenze e le problematiche degli edifici stessi. E sono sempre le persone che fanno delle donazioni affinché la chiesa possa andare avanti nella dimensione quotidiana, quindi nel mantenimento ordinario di un edificio. Del resto sono proprio le comunità che non di rado cofinanziano, sia pure con sempre maggiore difficoltà, lavori più complessi, perché l’otto per mille non finanzia mai al 100 per cento un intervento di restauro”.

Don Franceschini cita come esperienza di riutilizzo virtuoso, quella “del convento dei frati cappuccini a Pontremoli, che i frati hanno lasciato in uso alla diocesi e quindi alla comunità locale. Quest’ultima ha creato lì un luogo di accoglienza per i pellegrini e di incontri per esercizi spirituali, attività che non hanno nulla di commerciale. Quindi nel convento si torna a fare esperienza di tipo religioso, però completamente diversa rispetto alla vita comunitaria dei frati che vi abitavano prima”.

Il timore diffuso tra chi si occupa di conservazione dei beni culturali, sia in ambienti ecclesiali sia laici, è che alla fine gli ex edifici destinati all’uso religioso siano trasformati in negozi, ristoranti di fast food, hotel di lusso o altro.

Per questo anche le linee guida del Dicastero vaticano per la cultura indicavano una strada alternativa al puro sfruttamento commerciale: “Ambiti privilegiati per il riuso delle chiese sottoutilizzate sono sicuramente il turismo e la creazione di spazi di silenzio e di meditazione aperti a tutti. Come in passato molte chiese non avevano un’immediata finalità pastorale, come la parrocchie, ed erano sorte per volere di laici, per esempio le confraternite, così anche oggi alcune di esse, in un’ottica di corresponsabilità e di diversificazione di strategie, potrebbero essere affidate ad aggregazioni laicali: associazioni e movimenti che ne garantiscano una apertura prolungata e una migliore gestione patrimoniale. In alcune realtà si sta facendo strada l’esperienza di un utilizzo misto dello spazio, destinandone una parte alla liturgia e un’altra a scopi caritativi o sociali”

D’altro canto, spiega don Franceschini, se le chiese del tutto dismesse in Italia non sono ancora moltissime come nell’Europa continentale, il calo della frequenza alle funzioni religiose ha il suo peso perché “sono tante le chiese che in qualche modo rimangono un po’ in disuso, che magari vengono utilizzate solo in certe occasioni, per la festa del santo, per qualche celebrazione e poi rischiano di rimanere chiuse per dieci mesi all’anno. E questa è una situazione molto triste. Forse non riusciremo nemmeno più a pagare l’allaccio della corrente per edifici di questo genere”.

Con quali soldi?

Da punto di vista finanziario “c’è un grosso impegno da parte della Chiesa. Ogni anno una quota dei fondi dell’otto per mille viene utilizzata per la ristrutturazione delle chiese e per la loro messa in sicurezza, per esempio installando sistemi di allarme o per il restauro degli organi a canne. Ma i fondi sono assolutamente insufficienti”, spiega don Franceschini. Per altro conventi e monasteri non ricadono sotto la responsabilità della Cei, ma appartengono a congregazioni e ordini religiosi.

L’apporto delle comunità di fedeli non basta, mentre “le fondazioni bancarie, che in passato contribuivano molto di più, adesso hanno meno disponibilità. Gli enti pubblici non hanno più fondi. Faccio un esempio: fino a 25 anni fa, quando si faceva un restauro rispettando quanto era disposto dalla legge, le soprintendenze contribuivano tra il 30 e il 40 per cento del totale. E questo era già un contributo importante. Poi hanno cominciato a erogare i fondi con tre anni di ritardo rispetto all’inizio dei lavori: come può una ditta lavorare in questo modo? Come si pagano gli stipendi?”.

La realtà è che adesso “è molto difficile avere una compartecipazione da parte dello Stato e degli enti pubblici ai lavori che vengono fatti e quindi l’unica fonte, diciamo sicura, che abbiamo ogni anno è quella fetta di otto per 1000 destinata a questo scopo”.

D’altro canto, non tutti i beni culturali ecclesiastici sono di proprietà della Cei. Il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) per esempio, ne ha alcuni di assoluto valore e di cui ha curato i restauri rendendoli poi accessibili al pubblico. Ne è un esempio l’Abbazia di San Fruttuoso, monastero benedettino le cui origini risalgono all’anno mille sulla costa ligure tra Portofino e Camogli. O l’abbazia di Santa Maria di Cerrate, in provincia di Lecce, luogo di fede di origine bizantina e centro di sviluppo agricolo specializzato nella lavorazione delle olive: del complesso fa parte una chiesa che è stata riconsacrata dove si tiene una messa una volta al mese.

Poi c’è il Fondo edifici di culto (Fec), ente controllato dal ministero dell’interno. In totale sono 840 gli edifici gestiti dal Fec, tra cui moltissime chiese, una settantina delle quali si trovano a Roma, per esempio San Lorenzo in Lucina, Sant’Andrea della Valle, Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio, Santa Croce in Gerusalemme, Santa Maria del Popolo e Santa Maria in Ara Coeli al Campidoglio.

Le risorse necessarie per la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione degli edifici di culto, “sono ricavate in primo luogo dall’amministrazione del patrimonio fruttifero che il Fondo possiede: appartamenti, negozi, fondi rustici.

Altre risorse provengono da un contributo statale. Infine, sono utilizzati contributi di privati per mezzo di “contratti di sponsorizzazione”, si legge nella presentazione del Fec. Nel bilancio preventivo per gli anni 2022 e 2023 del Fondo, si prevede uno stanziamento rispettivamente di circa 8 milioni e 700mila euro e di circa 9 milioni e 400mila euro.

La questione delle risorse, del loro reperimento in un periodo di crisi, resta insomma in primo piano nella gestione di una parte tanto consistente del patrimonio culturale italiano. D’altro canto, se pure esistono accordi di collaborazione tra stato e chiesa, è la mutazione sociale e spirituale della popolazione, il rapporto tra territori e edifici storici, a richiedere risposte urgenti.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it