Quello nelle biblioteche italiane è un viaggio angosciante per un verso, promettente per un altro. Prestigiose istituzioni, cariche di storia e meta di studiosi da tutto il mondo, come la Biblioteca di archeologia e storia dell’arte a Roma o la Braidense a Milano, sono in condizioni assai precarie, con personale ridotto all’osso e servizi gravemente ridimensionati. Una situazione tanto più preoccupante, forse paradossale o che genera rabbia, se il viaggio prende anche altre direzioni, quelle in cui si avverte che, al contrario, è molto forte la domanda di biblioteche.

Durante la pandemia si sono moltiplicati appelli e proteste contro la loro chiusura. E spesso, quando s’impegna per il riscatto di un’area disagiata della città, un comitato di residenti progetta spazi in cui ha un ruolo decisivo proprio una biblioteca. Inoltre basterebbe far tappa in comuni grandi e piccoli dove, oltre alla consultazione dei libri e al prestito, le biblioteche sono luoghi di socialità, organizzano incontri e cineforum, allestiscono corsi di giardinaggio o di danza, laboratori per i bambini, ospitano anziani, aiutano chi è in difficoltà con la lingua italiana, italiani compresi. Anni fa Antonella Agnoli, una vasta esperienza come bibliotecaria, chiamava questi luoghi “piazze del sapere”. Chiara Faggiolani e Giovanni Solimine, entrambi docenti all’università Sapienza di Roma, parlano di “biblioteconomia sociale”.

Nel limbo

Sono strutture incomparabili per dimensioni e per storia, eppure tutte appartenenti all’universo della lettura. Da una parte ecco biblioteche come la Nazionale di Firenze, che custodisce più di 8 milioni di volumi e i cui scaffali crescono di 1,3 chilometri ogni anno, o come quelle progettate da maestri dell’architettura tra cinque e settecento – Jacopo Sansovino per la Marciana di Venezia, Francesco Borromini o Luigi Vanvitelli per la Vallicelliana e l’Angelica di Roma – nelle cui librerie lignee sfilano testi stampati dal rinascimento in poi e si conservano anche manoscritti, incunaboli, preziose carte geografiche e spartiti musicali; dall’altra biblioteche comunali o di quartiere, con scaffali aperti di legno chiaro o di metallo, talvolta tinteggiate con colori vivaci e accoglienti e allietate da oggetti di design.

Le prime sono le biblioteche statali, dipendenti dal ministero della cultura. Se ne contano 46, tra le quali, appunto, un gioiello come la Biblioteca di archeologia e storia dell’arte che ha sede in palazzo Venezia, a Roma. Fino agli anni ottanta qui erano presenti una decina di bibliotecari su 130 dipendenti. Ora ce n’è solo una, affiancata da due assistenti tecnici, più 3 amministrativi e 4 persone addette alla vigilanza. Non c’è più un direttore. O, meglio, una direttrice c’è, ma è la direttrice del complesso museale che comprende palazzo Venezia e il Vittoriano, la storica dell’arte Edith Gabrielli.

Di questo complesso museale fa parte anche la biblioteca, ne sarebbe forse il pezzo più pregiato, con i suoi 400mila volumi e materiali insostituibili per chi studia arte o archeologia. Ma negli ultimi anni la biblioteca ha subìto un preoccupante declino. Non si aggiornano le collezioni dei periodici né si acquistano libri. Sono interrotte le riproduzioni a pagamento e il prestito in loco, come pure la digitalizzazione. Mancano le postazioni informatiche e wifi. Funziona malissimo la climatizzazione e da tempo non si spolverano gli scaffali, un’operazione che dovrebbe essere fatta ogni anno. È intervenuta anche la Cgil, che denuncia “la soppressione di tutti i servizi Sbn (Servizio bibliotecario nazionale) a causa della mancanza di funzionari preposti alla catalogazione”.

La biblioteca vive in un limbo. Dal 2014 si parla di trasferirla perché i locali di palazzo Venezia sarebbero angusti. È stata trovata una sede, il palazzo San Felice, di proprietà del Quirinale e messo a disposizione dal presidente Sergio Mattarella. Ma dopo che per anni si è saputo poco o nulla, a dicembre del 2021 è stato presentato un progetto dell’architetto Mario Botta. L’apertura della nuova sede è prevista per la fine del 2024. Intanto la biblioteca langue. Il trasferimento divide il mondo dei bibliotecari. A chi lo ritiene necessario si oppone chi sostiene che tra le ragioni c’è quella di sgomberare libri, planimetrie e manoscritti perché palazzo Venezia, diventato nel 2019 museo autonomo, deve ospitare iniziative molto più remunerative e orientate al turismo.

La biblioteca non dipenderà più dal ministero, ma da una fondazione. È il terzo cambiamento di status in sette anni. Nel 2015 è passata dalla direzione generale che sovrintende a tutte le biblioteche statali a un Polo museale, quello del Lazio, come se fosse una pinacoteca. Nel 2019 è poi transitata sotto le insegne del ViVe, la struttura che governa su palazzo Venezia e il Vittoriano. E in questi passaggi, che hanno prodotto confusione e ingorghi burocratici, si è perso per strada un direttore che avesse la qualifica di dirigente bibliotecario.

I vuoti, come in tutti i beni culturali, sono in parte riempiti da precari giovani e meno giovani

Questa è una sorte comune a molte biblioteche statali. Solo quattro sono guidate da un dirigente di prima fascia. Un tempo era così per molte e forse era esagerato che lo fosse per alcune piccole strutture. Ma poi si è passati all’eccesso opposto, perché servivano figure dirigenziali per musei e siti monumentali o archeologici diventati autonomi con le riforme volute dal ministro Dario Franceschini. E dunque le biblioteche sono state declassate e la quasi totalità è retta da funzionari.

Per i dirigenti è stato avviato un concorso che produrrà qualche effetto, ma solo l’estate prossima. E sono vistosi anche altri squilibri. I bibliotecari previsti nella pianta organica del ministero sono 445. In realtà se ne contano 130 effettivi. Tutto il ministero della cultura è pericolosamente sotto organico (10.500 dipendenti contro i 19mila sulla carta). Inoltre l’età media è di poco inferiore ai 60 anni: “È la seconda più alta dopo quella del ministero dello sviluppo economico”, sostiene Claudio Meloni, responsabile beni culturali della Funzione pubblica Cgil. E per le biblioteche le carenze sono ancora peggiori.

L’ultimo bando di concorso risale al 2016. Prevedeva l’assunzione di appena 25 bibliotecari, successivamente cresciuti di poco. Alla Nazionale di Firenze ne sono arrivati 6, ma nel frattempo ne sono usciti 8, per cui oggi nella più grande biblioteca italiana lavorano 18 bibliotecari mentre ne sarebbero richiesti 42. In totale i dipendenti sono 96, poco più della metà di quanti ce ne vorrebbero.

E i vuoti, come in tutti i beni culturali, sono in parte riempiti da precari giovani e meno giovani. Garantiscono che la biblioteca apra anche il pomeriggio, che le richieste di consultare un libro vengano esaudite, che non si blocchi la catalogazione dei volumi. Una funzione essenziale, ma pur essendo spesso molto qualificati, questi lavoratori sono retribuiti una miseria e assunti con contratti vessatori che a volte durano solo pochi mesi e che non consentono di realizzare progetti scientifici.

Sempre a Firenze sono scesi in sciopero i dipendenti precari delle biblioteche comunali. Mentre un altro sciopero è stato proclamato nel giugno scorso nella biblioteca Isontina di Gorizia. Anche alla Nazionale di Napoli il clima è rovente perché anch’essa sarebbe destinata a trasferirsi dal palazzo Reale, dove si trova dal primo dopoguerra per volere di Benedetto Croce, nell’Albergo dei poveri, un grande edificio progettato a metà del settecento da Ferdinando Fuga, ma da molti decenni in rovina e in attesa di un restauro finanziato dal Pnrr.

Il dibattito è acceso, ma si svolge sullo sfondo di una biblioteca che con i suoi quasi 2 milioni di volumi, 20mila manoscritti (tra i quali gli autografi di Giacomo Leopardi), 1.800 papiri rinvenuti a Ercolano e contenenti testi di Epicuro e dei filosofi suoi seguaci, ha perso dal 2019 a oggi più di 60 dei 130 dipendenti. Anche a Napoli, come a Roma, tra gli obiettivi del trasferimento c’è l’intenzione di liberare spazi nello splendido palazzo Reale, diventato museo autonomo.

La tagliola dei pensionamenti scatta ormai da vari anni e riguarda l’ondata di chi fu assunto a metà degli anni ottanta. Dunque lo svuotamento dei ranghi era prevedibile. I concorsi, si sostiene al ministero, hanno procedure lente e i numeri delle assunzioni sono fissati dal ministero della pubblica amministrazione. Comunque, coperti dall’anonimato (una circolare limita la possibilità di parlare con i giornalisti), tanti bibliotecari concordano nel ritenere che le riforme introdotte dal 2014 abbiano privilegiato l’eccellenza del patrimonio storico-artistico – musei, siti archeologi e monumentali, che anch’essi ora fanno i conti con un personale ridotto – a scapito sia della tutela sia di settori meno appariscenti come biblioteche e archivi.

Oltre i libri

Il declino, per alcuni la mortificazione, delle biblioteche statali procede speditamente. A stento i funzionari rimasti riescono a conservare e a rendere disponibili i volumi, ad avviare progetti di ricerca. Con grande fatica alcuni provano ad aggiornare la funzione che una biblioteca può svolgere in un territorio o coordinandosi con altre istituzioni culturali. Contemporaneamente si è sviluppato intorno alle biblioteche un dibattito scientifico che le considera in sé, spiega Chiara Faggiolani, ma anche “come facenti parte di sistemi più ampi: il sistema della cultura, il sistema della salute, il sistema della formazione, il sistema della città. In una parola, il sistema del benessere”. È da qui che prende le mosse l’idea di una “biblioteconomia sociale”.

Le biblioteche in Italia sono 7.459, sottolineano Fabrizio Maria Arosio e Alessandra Federici nel volume Le biblioteche nel sistema del benessere curato da Chiara Faggiolani (Editrice Bibliografica), citando una ricerca dell’Istat riferita al 2020. Sono tante: le librerie sono circa 4.400, mentre musei, siti archeologici e monumentali superano di poco i 4.200. In due comuni italiani su tre, dunque oltre cinquemila, è presente almeno una biblioteca, sia essa di conservazione, specializzata in un settore o di pubblica lettura (queste ultime sono la grande maggioranza, oltre il 77 per cento).

Osservati in dettaglio, questi dati fanno emergere gravi squilibri. I quasi tremila comuni in cui non c’è neanche una biblioteca sono per il 40 per cento al sud. E gli italiani che nel loro paese o nella loro città non hanno una biblioteca sono 7,5 milioni, il 60 per cento dei quali vive al sud. Appesantisce il quadro un altro fattore: nel 41 per cento dei comuni senza biblioteche non si trova altro, né una libreria né un museo e nel 2020 in questi luoghi non è stato proiettato un film, non è stato allestito uno spettacolo teatrale o musicale. È una zona d’ombra, un’area interna più interna di altre, sostengono Arosio e Federici, “che espone i cittadini al rischio di un’esclusione sociale e culturale non sostenibili”.

Restano poco confortanti anche i dati sul numero di utenti. Nel 2021 solo il 7,4 per cento delle persone intervistate dall’Istat è andata in una biblioteca nei dodici mesi precedenti. C’era la pandemia, è vero. Ma è anche vero che nel 2019 erano appena il doppio, il 15,3 per cento.

Dove però sono presenti, e persino in aree marginali, segnalano Arosio e Federici, molte biblioteche svolgono funzioni che vanno al di là della consultazione o del prestito di libri. E rientrano nella categoria della “biblioteconomia sociale”. Organizzano attività per i bambini, mostre, concerti, dibattiti e presentazioni di saggi e di romanzi. E non solo.

Nel quartiere romano di Tor Bella Monaca agisce Cubo libro, una biblioteca molto piccola che però, con la fondazione Paolo Bulgari e con Carlo Cellamare e altri docenti del dipartimento di ingegneria della Sapienza, è anche impegnata a riqualificare spazi di uno dei quartieri della capitale dove le disuguaglianze sono più acute. È aperta soprattutto ai bambini dello Zen di Palermo la biblioteca Giufà, mentre nei rioni popolari pescaresi di Rancitelli, Villa del fuoco, san Donato e Fontanelle è avviata l’iniziativa “Questa biblioteca è un bene comune”, curata da associazioni di quartiere e da docenti del dipartimento di architettura coordinati da Piero Rovigatti.

In una grande biblioteca comunale come la San Giorgio di Pistoia si organizzano seminari sul cambiamento climatico, letture collettive di fiabe in diverse lingue, dall’albanese all’arabo, si ascoltano audiolibri, e le persone più anziane possono servirsi di un pulmino per rientrare a casa. Si prestano libri e anche oggetti, dai computer ai trapani fino agli ombrelli. Nel quartiere milanese di San Siro la fondazione Terzo luogo realizzerà un complesso il cui perno sarà una grande biblioteca pubblica, circondata da spazi per bambini, luoghi di ristoro e da una piazza (nel comitato scientifico della fondazione sono presenti, tra gli altri, il maestro Marco Rossi-Doria e la sociologa Marianella Sclavi).

Figurano diversi capitoli biblioteche anche nel Pnrr. Un progetto riguarda la nuova Biblioteca europea d’informazione e cultura, che sorgerà a Milano e di cui si parla da anni (sarà pronta per il 2026). Un altro interesserà la Civica di Torino e un altro ancora la rete delle biblioteche comunali di Roma che l’assessore Miguel Gotor vuole ampliare cambiandone anche la denominazione: poli civici culturali e d’innovazione.

Dal 26 settembre al 2 ottobre in tutta Italia si è celebrata l’undicesima edizione di #BiblioPride, la Settimana nazionale delle biblioteche, organizzata dall’Associazione italiana biblioteche (Aib). Titolo dell’iniziativa: “Mamma lingua. Storie per tutti, nessuno escluso”. E proprio l’Aib è impegnata, racconta la presidente Rosa Maiello, a definire la fisionomia del bibliotecario come “un professionista addetto a un servizio culturale fondamentale come sono fondamentali la sanità o l’istruzione pubblica, un servizio che comprende anche il saper includere non mettendosi sopra, ma a fianco delle persone”. Qualcuno ha osservato, aggiunge Maiello, “che le biblioteche sono tra i pochi luoghi rimasti dove nessuno spinge a comprare qualcosa o a professare un credo”.

E Michel Melot, che ha diretto prima la Bibliothèque nationale de France e quindi la biblioteca del Centre Pompidou sottolinea come tra quegli scaffali ci si sente in un ambiente “di anonimato assistito”, dove anche una persona senza dimora può accomodarsi senza essere etichettata come povera (e infatti, raccontava Antonella Agnoli, proprio al parigino Beaubourg c’era una stanza a disposizione per chi, di giorno, voleva lasciare in custodia la coperta o il cartone che usava per dormire).

“Le biblioteche possono essere un moltiplicatore di welfare”, insiste Faggiolani, “nelle quali il libro e la lettura restano centrali, ma centrali sono anche le persone che le frequentano o che potrebbero esserne attratte. Ma la lettura va intesa nei modi più vari, da quella solitaria a quella di gruppo. Senza dimenticare che le biblioteche sono decisive per orientarsi nel mondo digitale, per selezionare le informazioni che circolano in rete. In piena pandemia è stata promossa l’indagine ‘La biblioteca per te’, a cui hanno partecipato quasi 70mila persone. Dalle risposte al questionario emerge che in biblioteca ci si va per i libri e poi perché le si riconosce il valore di uno spazio e di un tempo di benessere e di felicità condivisa. Purtroppo l’immaginario prevalente le dipinge ancora come dei luoghi dove si custodisce la tradizione. E questo ritengono anche molti decisori politici, a vari livelli, per i quali le biblioteche sono semplicemente stanze che contengono libri”.

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