“Joseph, tu sei italiano?”. La domanda resta sospesa solo pochi secondi, poi il ragazzo risponde sicuro: “Certo!”. Prima di riprendere i tiri a canestro, si volta e con lo sguardo corrucciato chiede a sua volta: “Perché non lo sono?”. Dodici anni, appassionato di basket e tifoso della Roma, Joseph è nato in Italia ma sul suo documento è impressa la nazionalità della madre, arrivata dalla Nigeria poco prima che lui nascesse. Nel multietnico quartiere dell’Esquilino a Roma frequenta la primaria dell’istituto comprensivo Daniele Manin, chiamato anche scuola Di Donato, e come molti suoi compagni fa parte degli 877mila alunni “stranieri” che frequentano le scuole italiane.

Nati o cresciuti qui, figli di immigrati, questi studenti potrebbero ottenere la cittadinanza italiana grazie allo ius scholae, l’ultimo progetto di riforma della legge 91 del 1992 sull’acquisizione della cittadinanza, approvato in commissione affari costituzionali. Il testo, frutto della sintesi di tre proposte di legge depositate da Renata Polverini, da Matteo Orfini e da Laura Boldrini, contiene solo due articoli. Prevede la possibilità di richiedere la cittadinanza per i figli di immigrati che siano nati in Italia o siano arrivati entro il dodicesimo anno di età, che abbiano frequentato almeno cinque anni di uno o più cicli scolastici negli istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di formazione professionale. Nel caso in cui il ciclo scolastico di cinque anni corrisponda con le scuole elementari, oltre alla frequenza è necessaria anche la promozione. La richiesta deve essere fatta entro il compimento della maggiore età da almeno uno dei genitori, legalmente residente in Italia.

Dopo mesi di ritardi e ostruzionismo la proposta di legge è stata calendarizzata alla camera e la discussione in aula è iniziata il 29 giugno. Il testo base riprende in parte la formulazione dello ius culturae, che legava il diritto a un percorso di studi di cinque anni ed era già previsto nel disegno di legge approvato alla camera nel 2015 e mai passato al senato. Manca, invece, ogni riferimento allo ius soli temperato, il diritto di cittadinanza alla nascita per i figli di stranieri in possesso di un permesso di lungo periodo, che aveva suscitato molte polemiche in passato.

Una scelta di fiducia

Il relatore Giuseppe Brescia, deputato del Movimento 5 stelle, ha spiegato che la proposta di legge si basa su “una scelta di fiducia non solo negli stranieri”, ma anche “nel lavoro della comunità didattica, nella dedizione dei dirigenti scolastici e degli insegnanti”. Ed è proprio il mondo della scuola a fare pressione in queste settimane perché il progetto di riforma arrivi all’approvazione definitiva. Lo scoglio da superare è la netta opposizione dei partiti di destra, Fratelli d’Italia e Lega, che prima hanno presentato oltre settecento emendamenti in commissione affari costituzionali, poi appena è iniziata la discussione in parlamento hanno deciso di alzare i toni. Per la Lega, che ha convocato una riunione d’urgenza con tutti i parlamentari, l’approdo in aula della proposta di legge sulla cittadinanza, insieme a quella sulla cannabis, è una forzatura e mina la stabilità del governo, creando una “spaccatura drammatica tra le forze che sostengono Draghi”, ha detto il leader Matteo Salvini al Corriere della Sera. La minaccia, non troppo velata, è quella di una possibile uscita dalla maggioranza se si andrà avanti nell’esame delle proposte. In aula il partito ha presentato 1.500 emendamenti. Fratelli d’Italia, dall’opposizione, ha cercato di bloccare sul nascere l’esame della riforma chiedendo di cancellare lo ius scholae dal calendario della camera. Ma in bilico è anche la posizione di Forza Italia, che inizialmente ha dato parere favorevole al testo, ma in fase di votazione finale si è spaccata. I voti del partito potrebbero essere decisivi nelle prossime settimane sia alla camera sia in senato, dove i numeri restano particolarmente risicati.

Intanto alcuni istituti scolastici hanno lanciato una mobilitazione che continuerà nei prossimi mesi sotto lo slogan #ItaliaDimmidiSì coniato dalla campagna Dalla parte giusta della storia, che riunisce oltre trenta associazioni e ong. “È sicuramente positivo legare la cittadinanza al percorso d’istruzione, perché si chiama in causa la scuola come parte attiva della società”, dice Natalia Vetta, insegnante della scuola Di Donato. “Noi docenti saremo responsabili di accompagnare un processo che in realtà è già in corso nelle nostre classi: i bambini che chiamiamo stranieri si sentono giustamente italiani, anche se non lo sono di diritto. La sfida reale è più ampia e riguarda le difficoltà di apprendimento e le differenze sociali degli alunni con background migratorio”.

Nel cortile a pochi passi da piazza Vittorio, i genitori si scambiano pareri e opinioni. Per alcuni non si arriverà mai a cambiare la legge sulla cittadinanza: “Siamo un paese razzista”, dice una delle madri. Per Girma Abay e i suoi due figli di otto e sei anni Amca e Kirble, non cambierebbe nulla anche con l’approvazione dello ius scholae. Arrivata dall’Etiopia nel 2008, oggi vive all’Hotel 4 stelle, un albergo occupato nella periferia est della capitale, insieme ad altre trecento persone, per la maggior parte straniere. “Sono stata costretta a lasciare il mio paese e oggi sono una rifugiata politica. Non ho il reddito minimo previsto per poter richiedere la cittadinanza italiana e ci ho rinunciato da tempo. Ma per i miei bambini è diverso: sono nati qui, la loro casa è qui, la loro cultura è italiana. Sono totalmente romani anche nell’accento, perché non possono essere italiani come i loro compagni di classe? Dovrebbe essere un diritto e basta”. La proposta di riforma attualmente in discussione prevede che, per fare la richiesta di cittadinanza del figlio, il genitore debba avere una residenza legale. Il criterio esclude chi vive nelle occupazioni e in altre situazioni di disagio abitativo.

Anni di immobilismo

Flore Temanu, quarant’anni, è arrivata dal Corno d’Africa nel 2012. Fino al 2017 viveva nel palazzo di via Curtatone, occupato due anni prima da cittadini eritrei e poi violentemente sgomberato nell’agosto di cinque anni fa. “Ci hanno buttato letteralmente per strada quando mio figlio Adonai, che era nato lì, aveva due anni. Così insieme a mio marito siamo stati ospitati da un’amica e poi siamo finiti in un’altra occupazione a via Collatina, dove viviamo tutt’ora”, racconta. “Mio figlio si sente italiano, ma non possiamo fare domanda per la cittadinanza perché abbiamo una residenza fittizia a via Modesta Valenti”, spiega riferendosi alla residenza solitamente assegnata alle persone senza dimora.

L’Associazione genitori della scuola Di Donato, insieme ai rappresentanti dell’occupazione Spin Time Labs, ha incontrato alcuni parlamentari per chiedere modifiche alla proposta di legge, in particolare di eliminare il criterio di residenza legale dei genitori, che non tiene conto della fragilità sociale delle famiglie straniere in Italia. Ma nel testo finale è stato mantenuto, mentre è stato eliminato il requisito di assenso di entrambi i genitori, basterà solo la richiesta di uno dei due.

Il testo ha diversi limiti: riguarda solo i minori e non cambia le regole per gli adulti che vivono da anni nel paese. Inoltre, non è stata introdotta la norma transitoria che consente di considerare la legge retroattiva, così anche chi ha già terminato il suo percorso scolastico sarebbe escluso dalla platea dei beneficiari. “Non è la riforma che avremmo scritto noi, perché non affronta alcune parti problematiche della legge 91 del 1992, ormai vecchia di trent’anni, ma è comunque un piccolo passo avanti, dopo anni di immobilismo”, sottolinea Fioralba Duma, attivista del Movimento italiani senza cittadinanza. “Poi se ci sarà la volontà politica di migliorarla si potrà fare un secondo o terzo passo, bisogna anche essere consapevoli del clima politico nel paese. Siamo già in ritardo, in un sistema bicamerale aver aspettato tanto per la calendarizzazione è un rischio. Potrebbe non esserci il tempo necessario per l’esame del testo in entrambe le camere prima della fine della legislatura. Per questo ora serve uno sforzo da parte dei partiti e tanto coraggio”.

Duma è nata in Albania ed è arrivata in Italia nel 2001, quando aveva undici anni. È stata a lungo tra le protagoniste della battaglia per i diritti di cittadinanza, che oggi combatte con ancora più decisione: “Tra qualche mese nasceranno i miei gemelli, saranno anche loro albanesi e non italiani. Mi fa stare male l’idea di trasmettergli questo mio status di diritti sospesi”, racconta. “Spero che la legge cambi in fretta così i miei bambini, ormai alla terza generazione, non saranno costretti alle lunghe file in questura e ai mille problemi burocratici che ho avuto io”.

Seppur considerato da più parti un compromesso al ribasso, lo ius scholae ha ottenuto il parere favorevole anche dei pedagogisti. “È un tentativo di riforma che ha obiettivi limitati rispetto al passato, ma è comunque un passo avanti necessario”, sottolinea Milena Santerini, docente di pedagogia all’università Cattolica di Milano, tra le coordinatrici del gruppo intercultura della Società italiana di pedagogia (Siped), che riunisce i docenti delle università italiane. In particolare, i pedagogisti del Siped parlano di un “vantaggio di cittadinanza” che non interesserebbe solo i minori ma tutta la società. “L’acquisizione della cittadinanza influisce positivamente su una serie di aspetti: è più probabile che i bambini vengano iscritti alla scuola dell’infanzia, aumenta il tempo che trascorrono a scuola e di solito spinge i ragazzi anche a proseguire con l’istruzione superiore”, continua Santerini. “Al contrario non averla aumenta il rischio di abbandono scolastico”.

I miei figli sono totalmente romani, anche nell’accento, perché non possono essere italiani come i loro compagni?

Per un paese in costante calo demografico, una legge che investe sulla scuola significherebbe anche una scommessa sul futuro dei cosiddetti nuovi italiani. Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che tra i banchi di scuola le fragilità e le differenze sociali emergono con forza. Secondo il ministero dell’istruzione il 29,9 per cento degli alunni con cittadinanza non italiana ha un ritardo scolastico (cioè frequentano una o più classi inferiori rispetto all’età). Un dato che per gli italiani è in media dell’8,9 per cento. Inoltre, tra i 14 e i 16 anni il 10 per cento circa non prosegue gli studi dopo la scuola secondaria di primo grado, tra i 17 e i 18 anni i percorsi non sono lineari o caratterizzati da abbandoni precoci.

All’ingresso dell’istituto comprensivo Via Guicciardini di Roma, la scritta colorata “Benvenuti” prende metà della parete. Era stata appesa due anni fa per l’open day dedicato ai più piccoli, poi è rimasta sulla porta a sottolineare l’idea di una scuola sempre inclusiva. Immersa nello storico quartiere Monti, qui gli studenti tra primaria e secondaria sono circa novecento, di cui molti di origine straniera. Alle differenti provenienze geografiche si sommano quelle sociali. “Guardo favorevolmente allo ius scholae perché credo possa essere un volano per accendere una discussione su cosa è oggi la scuola, su cosa dovrebbe fare e su come devono essere supportate le politiche scolastiche. Ma è una riforma che deve andare di pari passo con un investimento sulla formazione e sul welfare” dice la dirigente Simona Di Matteo, che nel complesso scolastico ha incorporato anche una scuola in lingua cinese per creare un ponte con le famiglie di origine asiatica.

“Nei nostri istituti realizziamo pratiche straordinarie, ci adoperiamo e raggiungiamo obiettivi positivi ma in un ambito spesso volontaristico. Quello che manca è un sistema omogeneo. Se passasse la legge tutto questo non sarebbe più lasciato ai singoli dirigenti. E questi bambini non sarebbero più visti solo come portatori di un bisogno ma come soggetti con diritti e doveri”, aggiunge. “Questo significa esercitare la cittadinanza reciprocamente: creare le condizioni per una vera inclusione e mettere anche le famiglie di origine nella possibilità di essere più volitive, responsabili e partecipative all’interno della comunità. La scuola è il luogo perfetto, qui i bambini sono già italiani di fatto”.

Ferite aperte

Per Leaticia Ouedraogo, 25 anni, essere considerata una straniera nel paese dov’è cresciuta è una ferita aperta. Nata in Burkina Faso, è arrivata in Italia all’età di undici anni. Quando frequentava il liceo scientifico a Bergamo era l’unica persona nera della sua sezione. “Il mio è un percorso di eccellenza, sono sempre stata la prima della classe, ma solo io ne conosco il prezzo”, racconta. “Ho dovuto fare sempre di più rispetto ai miei compagni, dimostrare di più, impegnarmi di più. Alla fine delle scuole medie i professori hanno detto a mia madre che avrei dovuto fare un istituto tecnico, perché per quelli come me sarebbe stato meglio trovare subito un lavoro. Eppure avevo voti altissimi in tutte le materie. Alla fine mi sono iscritta al liceo e poi all’università, ma è una costante che i ragazzi di seconda, terza o quarta generazione siano spinti verso percorsi professionali. Così molti rinunciano anche alle proprie aspirazioni personali”.

Premiata nel 2019 come migliore studente straniera della sessione di laurea alla Ca’ Foscari di Venezia, oggi Ouedraogo frequenta un master in geografia all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, una delle università europee più prestigiose. “Mio padre è arrivato in Italia 25 anni fa, ma è ancora in attesa della cittadinanza”, spiega. “Oggi mi trovo nella situazione paradossale di poter chiedere la cittadinanza in Francia, che agevola il riconoscimento per chi frequenta le scuole di eccellenza, ma di non poterlo fare nel paese che considero mio”.

Anche a causa del passato coloniale francese in Burkina Faso, la ragazza per ora rinuncerà ad avere un passaporto europeo. “Considero miope la scarsa attenzione dell’Italia alla mia generazione”, aggiunge. “Nel mondo degli affari si direbbe che con me è stato fatto un investimento a perdere: mi sono formata in Italia, il mio percorso è stato ottimo e rigoroso. Grazie a quella formazione ho avuto accesso a una scuola importante. Ma se volessi spendere le mie qualifiche in Italia non potrei neanche partecipare a un concorso pubblico, perché sono una straniera. E così, come tanti miei amici, ho scelto di andare via”. Attivista per i diritti, considera solo in parte una scelta intelligente quella di legare la cittadinanza alla scuola: “Perché questa legge abbia un senso bisogna rendere la scuola realmente inclusiva, oggi non lo è. L’ho vissuto sulla mia pelle e mio fratello, che ha dodici anni, a scuola vive le stesse difficoltà”.

Per Zeliha Compaore, 24 anni, il sistema è costruito per dire a una parte della popolazione che in realtà non esiste. Nata anche lei in Burkina Faso, è arrivata a Cesena all’età di due anni. “A distanza di 22 anni, oggi sono l’unica extracomunitaria della mia famiglia. Mio padre è riuscito a ottenere la cittadinanza quando io avevo già compiuto diciott’anni”, spiega. “I miei genitori e i miei fratelli sono italiani, mentre io no. E questa differenza la sconto ogni giorno: l’ultimo episodio qualche mese fa. Dopo la laurea in scienze infermieristiche ho fatto richiesta di iscrizione all’albo. Ma a differenza dei miei compagni la mia pratica necessitava di un nulla osta ulteriore, perché sono di fatto straniera e la mia richiesta era equiparata a chi ha preso un titolo di studio all’estero, anche se mi sono laureata a Bologna”.

Questi piccoli episodi di differenziazione quotidiana, sommati a forme di discriminazione istituzionale, sono per Compaore lo specchio di una società poco lungimirante. Lo dimostra quanto avvenuto durante il picco della pandemia quando, nonostante la carenza di personale, ai medici e infermieri non italiani era precluso l’accesso ai bandi di alcuni ospedali. “Non riconoscere chi si è formato qui perfino durante un’emergenza di quella portata è davvero assurdo: non siamo un paese che può permettersi di fare queste distinzioni”, continua Compaore. “Noi giovani, italiani e non, dovremmo essere la parte della società su cui investire. Eppure tutto il sistema ci spinge fuori e se abbiamo un’origine diversa non ci riconosce, ci ostacola. La retorica ricorrente è che la cittadinanza dobbiamo meritarcela come un premio. Ma non è un premio, è un nostro diritto, siamo già parte di questa società”.

Da sapere
Un diritto comunale

A Bologna è stato approvato uno ius soli “comunale” per i minori stranieri. Circa 11mila ragazzi e ragazze tra gli 0 e i 17 anni riceveranno la cittadinanza onoraria bolognese. I requisiti sono: avere la residenza a Bologna e essere nati in Italia da genitori stranieri con permesso di soggiorno, oppure aver completato nel nostro paese un intero ciclo scolastico o un percorso di formazione professionale.
Lunedì 27 giugno il consiglio comunale di Bologna ha approvato questa delibera che ha di fatto modificato lo statuto cittadino, e che entrerà in vigore il 30 luglio. Dopo una discussione durata più di sette ore, il provvedimento è passato con 26 voti favorevoli (centrosinistra e Movimento 5 stelle), otto contrari (Lega e Fratelli d’Italia) e tre astenuti.
Con gli stessi numeri, è stato approvato anche un ordine del giorno per invitare la giunta ad accelerare le tempistiche di ottenimento della cittadinanza italiana, modificare alcune prassi che possono essere discriminatorie in materia di residenza e aumentare il personale dei servizi demografici.
Lo ius soli comunale nasce per riconoscere ai giovani di origine straniera l’appartenenza al luogo dove sono cresciuti, al pari dei loro coetanei italiani, ma anche per mandare un segnale al parlamento, in un momento in cui la legge sullo ius scholae è in discussione alle camere. Una mossa simbolica, che però ha anche effetti concreti: i giovani con cittadinanza onoraria potranno usufruire di opportunità che prima erano accessibili solo ai cittadini italiani, come il contributo economico dato dal comune ai neomaggiorenni per supportare le esperienze di lavoro o di studio all’estero.
Verranno inoltre organizzate iniziative di educazione civica e di coinvolgimento dei ragazzi nelle attività culturali, scolastiche, di promozione e cura della città.
Il 20 novembre, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza,verrà organizzata una Festa della cittadinanza, in cui
verrà conferito questo riconoscimento.
Alice Facchini


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it