Basta scendere alla stazione per capire che Spoleto non è una cittadina medievale come le altre. Sul piazzale, appollaiato su una rotatoria spartitraffico, c’è Teodelapio, una monumentale scultura di acciaio verniciato di nero che lo scultore statunitense Alexander Calder realizzò nel 1962 in occasione del Festival dei due mondi che era nato, su iniziativa del compositore Gian Carlo Menotti, pochi anni prima, nel 1958.

Sculture nella città era una delle tante operazioni legate al festival che mettevano in contatto la piccola città di Spoleto con il meglio della scena artistica e sperimentale internazionale, soprattutto statunitense. Dal 1958 a oggi, infatti, da qui sono passati tutti: da Tennessee Williams a Ezra Pound, da Rudolf Nureev a Carla Fracci. Qui, nel 1969, un giovane Luca Ronconi fece debuttare il suo Orlando furioso che, con una sessantina di attori impegnati in scene che avvenivano simultaneamente in luoghi lontani tra loro, scardinava qualunque distinzione tra teatro e pubblico. Da Spoleto sono passati il direttore d’orchestra Thomas Schippers (che fu anche direttore artistico; le sue ceneri sono tumulate nel duomo) e il dj e produttore Jeff Mills, padre fondatore della techno di Detroit. Solo scorrere i manifesti delle varie edizioni del Festival dei due mondi è un corso accelerato di storia dell’arte contemporanea: dall’esponente del realismo sociale americano Ben Shahn all’astrattista Robert Motherwell, dagli illustratori Saul Steinberg e Jean-Michel Folon passando per Burri, Afro, Miró, Manzù, Henry Moore fino all’edizione di quest’anno illustrata dal pittore tedesco Anselm Kiefer.

Flusso di coscienza

Oggi siamo abituati ai festival internazionali con cartelloni eclettici e iperstimolanti, ma provate a immaginare cosa significasse, nell’Italia della fine degli anni cinquanta, decidere di aprire al mondo e alla sperimentazione più ardita una piccola, impervia, cittadina umbra. Dopo un saluto a Teodelapio, l’antico duca di Spoleto che colpì la fantasia di Calder, si sale nella città vecchia e si comincia: quest’anno, in 17 giorni di festival, ci sono più di trenta compagnie e due orchestre in residenza che presentano più di sessanta spettacoli.

Entrando all’auditorium della Stella, l’ex chiesa dei santi Stefano e Tommaso, a ridosso dei resti dell’anfiteatro romano, il palcoscenico è già abitato. Una donna è stesa, spalle al pubblico, su un lettino che sembra un po’ quello del ginecologo e un po’ quello dello psicanalista. Poco lontano da lei un uomo calvo, immobile, è seduto su una sedia e fissa il vuoto, le mani posate sulle ginocchia. I pochi elementi scenografici geometrici ricordano gli spazi sghembi e illusori di certe tele di Francis Bacon.

Il pubblico prende posto sugli spalti e comincia L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo, uno spettacolo tratto dall’omonimo romanzo della tedesca Katharina Volckmer (La nave di Teseo 2021) che il regista italiano Fabio Cherstich ha montato insieme alla stessa autrice. Se il romanzo, scritto in inglese e mai uscito in Germania, è un lungo flusso di coscienza che mescola fantasie sessuali legate a Hitler, la rimozione dell’olocausto operata dalla cultura tedesca, traumi infantili e confessioni disturbanti, lo spettacolo di Cherstich cerca di dare uno sviluppo narrativo alle vicende di questa giovane donna che ha deciso: non vuole più essere tedesca ma, soprattutto, non vuole più essere donna, in un mondo ostile pensato esclusivamente per “corpi umani dotati di cazzo”. Attraverso la trasformazione chirurgica e una sorta di reboot spirituale, la protagonista vuole dissolvere quella che era per trasformarsi in qualcosa di nuovo.

L’attrice Marta Pizzigallo, che si contorce come per uscire da un corpo che non riesce a contenerla, è impegnata in un virtuosistico, estenuante monologo di ottanta minuti che alterna momenti spaventosi, confessioni commoventi e inconsulti, dolorosi squarci di comicità, fino al fiammeggiante finale in cui, sfiancata ma pronta alla trasformazione, dice al medico muto: “Facciamoci oro, dottor Seligman, cambiamo forma nei secoli, ma senza scomparire”. È interessante notare come sul finire dello spettacolo, in maniera graduale e quasi impercettibile, i pronomi cambino e lei, per chi ha l’accortezza di notarlo, diventa lui.

Il corpo come interfaccia

Se il corpo della protagonista dell’Appuntamento è un’interfaccia con la realtà che va rimessa a punto perché il mondo esterno non può essere cambiato, nello straordinario riallestimento della Sagra della primavera, di Pina Bausch, in scena al Teatro nuovo, succede qualcosa di simile. Anche i corpi dei danzatori della compagnia senegalese École des sables, diretta da Germaine Acogny, sono un’interfaccia tra l’umano e la terra. Con una danza parossistica e un rituale sanguinario cercano, attraverso l’energia dei corpi e il sacrificio di una di loro, di piegare la natura, d’ingraziarsi gli spiriti della terra, insomma, di trasformare a proprio vantaggio un mondo esterno che non si lascia domare.

La coreografa tedesca Pina Bausch creò questo spettacolo sulla musica della Sagra della primavera di Igor Stravinskij intorno alla metà degli anni settanta. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2009, solo due compagnie potevano averla in repertorio: l’Opéra di Parigi e il Balletto delle Fiandre. Questo nuovo allestimento africano è stato voluto da Solomon Bausch, il figlio di Pina, e da Jorge Puerta Armenta, della compagnia del Tanztheater di Pina Bausch. Questa Sagra della primavera si apre con Common grounds (terreni comuni) una specie di prologo, una chiave di lettura necessaria per capire il nuovo allestimento. Vediamo in scena due anziane protagoniste della danza contemporanea: la franco-senegalese Germaine Acogny e la francese Malou Airaudo. La prima è la madre fondatrice della danza africana contemporanea, la seconda è stata, tra le altre cose, un elemento fondamentale della compagnia di Pina Bausch fin dai primi anni settanta. Entrambe le danzatrici hanno affrontato la Sagra della primavera: Airaudo con Pina Bausch e Acogny con Olivier Dubois e la sua Mon élue noire - Sacre #2 nel 2014. Il dialogo silenzioso e solidale tra le due donne ci parla dell’incontro tra culture apparentemente lontane che però sanno di muoversi su un terreno comune: quello della danza.

Le due anziane danzatrici si confrontano e si confortano a vicenda: si rispecchiano nei movimenti l’una dell’altra e sgombrano il campo da qualsiasi dubbio. Non ci sono esotismo o colonialismo culturale in questa rilettura africana di un pezzo celeberrimo di danza contemporanea creato in Germania da una compagnia di danzatori bianchi.

Eppure vedere in scena una ventina di corpi neri, uomini e donne, impegnati in una danza vorticosa ispirata a un antico culto pagano sulla musica di un compositore bianco che con mezzi espressivi ipermoderni (la Sagra è del 1911-13) cercava di raccontare un mondo arcaico e primitivo, ci obbliga a porci delle domande.

Cosa ci aspettiamo da un corpo nero in teatro? Riusciamo a scindere quello che vediamo da secoli di stereotipi, di feticizzazioni e di rappresentazioni sofferenti, incatenate e umiliate dei corpi neri? Il sudore dei neri, la fatica fisica che fanno rotolandosi sulla terra che riempie il palcoscenico, ci fanno un effetto diverso dalla fatica e dal sudore, altrettanto evidenti, dei danzatori bianchi? La coreografia è quella di Pina Bausch, riprodotta minuziosamente in ogni dettaglio, e i tempi sono perfetti. Ma la Sagra di Pina Bausch trae la sua forza da una compagnia di danzatori in maggioranza bianchi che forzano i codici della danza classica europea su cui si sono formati alla ricerca di un movimento più viscerale; la Sagra dell’École des sables funziona quasi all’inverso: i danzatori vengono dall’hip hop o dalla danza tradizionale africana e hanno codici diversi da forzare per arrivare alla stilizzata potenza dei movimenti di Pina Bausch.

Entrambe le compagnie arrivano allo stesso risultato partendo da esperienze diverse e s’incontrano proprio in quel terreno comune descritto a inizio serata da Airaudo e Acogny. La Sagra della primavera rifatta dall’École des sables ci sembra più fluida, in qualche modo più composta di quella del Tanztheater: mancano quegli scatti, quei tic che rimandano all’espressionismo tedesco. I danzatori e le danzatrici africane a volte sembrano volare con grazia, e senza opporre resistenza, verso l’inevitabilità del finale: il sacrificio della prescelta che crollerà in scena alla fine del pezzo.

Divinità fluviali

Con la Senna festeggiante, serenata di Antonio Vivaldi del 1726, eseguita in forma di concerto nel piccolo teatro Caio Melisso, facciamo un salto di duecento anni rispetto alla Sagra.
È un salto indietro nel tempo, ma è un balzo in avanti rispetto alla rappresentazione della natura e del suo rapporto con l’uomo. Se all’inizio del novecento Stravinskij stravolgeva le regole dell’armonia per inseguire un’idea arcaica e primitiva del suono e soprattutto del ritmo, Vivaldi in modo artificioso, e oggi potremmo dire camp o postmoderno, trasforma la natura, in questo caso le sponde della Senna, in un ghirigoro di teatro musicale, in un fregio di divinità fluviali che si rincorrono sul filo di arie deliziosamente leggere e ornate.

La Senna di Vivaldi è un baritono (Peter Harvey) a cui sono affidate tre arie di diabolica difficoltà. Più semplici, ma altrettanto fascinose, sono le arie affidate agli altri due personaggi della cantata, la Virtù (Anna Reinhold, mezzo soprano) e l’Età dell’oro (Emőke Baráth, soprano). La serenata, che era una cantata da eseguirsi all’aria aperta durante una festa privata, probabilmente su una chiatta nella laguna veneziana, era stata commissionata a Vivaldi dall’ambasciatore francese Jacques-Vincent Languet. Il libretto, ovviamente encomiastico e pieno di riferimenti alla poesia arcadica e all’araldica francese, parla di come la Virtù e l’Età dell’oro, stanche di girovagare, trovino rifugio tra le deliziose sponde della Senna dove “le ninfe son tutte amor”.

La bella esecuzione dell’ensemble da camera della Budapest festival orchestra rimanda a un momento particolare delle origini del Festival dei due mondi: quel periodo storico, tra gli anni cinquanta e sessanta del novecento, in cui la riscoperta della musica barocca era strettamente legata alla musica contemporanea più d’avanguardia. Opere di Vivaldi, di Händel o di Pergolesi venivano riscoperte e rieseguite, dopo duecento anni di oblio, con uno spirito pionieristico e sperimentale che veniva dritto dall’esperienza delle avanguardie.

Anche il concerto di apertura del festival, con la Budapest festival orchestra al completo diretta da Iván Fischer, si muove su questa linea: The passion of Ramakrishna, oratorio creato nel 2002 dal compositore statunitense Philip Glass, è stato eseguito insieme alla Suite n. 4 di Bach, creando un senso di continuità tra il massimo compositore del settecento e il padre del minimalismo americano. Questo continuo gioco di specchi e di rimandi tra antico e moderno, tra lontano e vicino, alla fine è l’unico vero filo conduttore di un cartellone così eclettico e forse è l’anima del Festival dei due mondi. E ci ricorda che tutta l’arte è arte contemporanea: perché avviene qui e ora, davanti agli occhi di un pubblico di oggi.

Da sapere
L’edizione del 2022

Il Festival dei due mondi è una manifestazione culturale internazionale di musica, arte e spettacolo che si svolge ogni anno a Spoleto dal 1958. Tra il 24 giugno e il 10 luglio, la sessantacinquesima edizione del festival ospita più di sessanta spettacoli teatrali, concerti e performance e circa cinquecento artiste e artisti provenienti da 36 paesi che si esibiscono nei teatri, negli spazi al chiuso e nelle piazze della città umbra. Per il secondo anno consecutivo, la curatrice tedesca Monique Veaute è la direttrice artistica della manifestazione. Tra gli artisti presenti in questa edizione: Barbara Hannigan, Jeanne Candel e Samuel Hachache, Germaine Acogny e Malou Airado, Trisha Brown dance company e la cantante di fado portoghese Mariza.


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