Questo articolo è stato pubblicato su L’Essenziale il 23 dicembre 2021.

Orientamento è un termine molto plastico. Potrebbe avere a che fare con la nostra capacità di prendere decisioni lungimiranti, per citare il sottotitolo di un bellissimo libro di Steven Johnson appena uscito per Erickson, La moglie di Darwin. E chiaramente è una questione molto importante nell’ambito educativo e nelle politiche dell’istruzione, specialmente quando sono legate a quelle del lavoro. Di orientamento si parla sempre più spesso in convegni, occasioni pubbliche, festival.

Dal 25 al 27 novembre 2021 si è svolto alla fiera di Verona il convegno JobOrienta, uno degli appuntamenti più importanti sul tema dell’orientamento legato al lavoro, a cui hanno partecipato 35mila persone, secondo gli organizzatori. Il ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi, nell’incontro con gli assessori regionali ha detto: “L’idea che l’orientamento si possa ridurre al marketing dell’ultima estate è superata. L’orientamento va fatto da tutta la scuola, insieme alle famiglie. La scuola ‘affettuosa’, in cui il senso di sé è fondamentale, accompagna nel loro percorso i ragazzi: percorsi tutti egualmente dignitosi, che devono portare alla realizzazione della persona”. L’orientamento non è, l’orientamento deve essere: è chiaro già da questa impostazione che parlare di orientamento e programmare delle politiche conseguenti è complicato.

È quindi utile chiarire i termini della questione. Soprattutto considerato che, come ha ricordato Bianchi, la riforma dell’orientamento è “una delle più importanti nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)”. Il piano riserva infatti alla riforma del sistema dell’orientamento un miliardo di euro: moltissimi soldi.

Vocazione e professione

Su Italia Domani, il sito del governo che dovrebbe illustrare i progetti del Pnrr man mano che prendono forma, di questa riforma non c’è nemmeno una bozza, solo due righe che parlano di “introdurre l’orientamento formativo per le classi quarte e quinte della scuola secondaria di secondo grado, e accompagnare gli studenti nella scelta del percorso di studi o di ulteriore formazione professionalizzante (Its), propedeutica all’inserimento nel mondo del lavoro per circa 30 ore all’anno”. Una cosa però è evidente: l’orientamento diventerà sempre più cardinale nelle politiche della formazione e di introduzione al lavoro, è uno dei capisaldi dello spirito del Pnrr. Ma le aziende e il mondo della scuola non condividono sempre la stessa concezione.

A JobOrienta Ilenia Cavo, assessora all’istruzione della regione Liguria, a nome delle sue colleghe e colleghi ha consegnato al ministro Bianchi la Carta di Genova, un documento programmatico presentato al salone Orientamenti, che si è tenuto appunto a Genova dal 12 al 14 novembre (45mila presenze). Nella premessa si legge: “È importante che i giovani acquisiscano familiarità con il mondo del lavoro, conoscendone i settori produttivi, le figure professionali e le dinamiche in relazione ai trend e alle evoluzioni dei mercati del lavoro territoriali”. L’analisi dei fabbisogni di questi mercati dovrebbe modellare le politiche dell’orientamento e quindi le scelte di chi va a scuola: “Le imprese sono considerate un luogo privilegiato di apprendimento e di orientamento”, dove gli studenti possono “mettere a confronto le aspirazioni di ciascuno con la realtà lavorativa verificando così se la scelta della professione è effettivamente rispondente alla propria vocazione”.

Le aziende e il mondo della scuola non condividono sempre la stessa concezione

In definiva quindi, cosa dovrebbe cambiare nei percorsi scolastici? L’orientamento dovrebbe entrare a far parte delle attività didattiche (trenta ore alle medie e trenta alle superiori); si dovrebbero istituire piani formativi per ogni ragazza e ragazzo; l’offerta di lavoro che arriva dal territorio dovrebbe essere divulgata il più possibile con visite alle aziende, “testimonial del lavoro” a scuola e incremento dei cosiddetti “saloni dell’orientamento” come Orientamenti e JobOrienta appunto.

I fenomeni che si vogliono contrastare con questa riforma sono due: l’alta percentuale di neet (dall’inglese neither in employment or in education or training, cioè le ragazze e i ragazzi che non studiano, non lavorano e non stanno facendo percorsi di formazione); e il mismatch, cioè l’asimmetria tra le richieste del mondo del lavoro e le offerte di quello formativo.

La voce delle imprese

La sottosegretaria all’istruzione Barbara Floridia sta seguendo in prima persona la riforma. “È importante stare a scuola e conoscere se stessi, perché conoscendo se stessi si capisce per cosa si è portati, e questo aiuta a scegliere. In passato l’orientamento è stato visto come momento informativo, e non basta più in un’epoca accelerata in cui i cambiamenti anche del mondo lavorativo sono continui”, dice all’Essenziale. “Oggi dobbiamo parlare di nuove competenze. Oltre alle soft skills, ci sono le green skills: le competenze verdi che tutte le aziende vogliono”.

La voce delle aziende è determinante. Da anni Giovanni Brugnoli, vicepresidente per il capitale umano della Confindustria, ripete che è importante orientare le aspettative dei ragazzi sulle potenzialità del manifatturiero. Nel 2019 dichiarava: “Nei prossimi tre anni, in sei settori chiave del made in Italy avremo carenza di personale. Purtroppo i curriculum dei ragazzi sono scollegati dalle richieste delle imprese”. In un’intervista più recente ha insistito sulla necessità di “puntare sulla formazione aderente alle esigenze del mondo produttivo. L’orientamento”, ha aggiunto, “deve partire dalle medie, e gli insegnanti vanno formati per l’orientamento. Sugli Its, l’obiettivo è aumentare i corsi di qualità, non le fondazioni”.

Gli Its (istituti tecnici superiori) sono scuole di livello post-secondario non universitario, a cui si accede con un diploma di scuola superiore. Sono ancora poco diffuse e poco conosciute. La formazione è realizzata in collaborazione con aziende, università, centri di ricerca ed enti locali, soprattutto nei distretti industriali. Oggi ci sono poco più di cento Its, ma con il Pnrr il ministro Bianchi vuole moltiplicarli e valorizzarli. Sono un modello spesso citato come risposta al mismatch, perché – si dice – una percentuale rilevante degli studenti che li frequentano riesce a trovare subito lavoro.

La questione del mismatch si trascina da secoli. Tra fine ottocento e inizio novecento troviamo molte prese di posizione pubbliche – di intellettuali come Piero Gobetti o Piero Calamandrei – sulla questione degli “spostati” e del “proletariato intellettuale”, cioè i laureati in materie umanistiche che rimanevano senza lavoro. Gaetano Salvemini nel 1908 chiedeva di rendere il sistema scolastico più efficiente e selettivo con “lo sfogatoio delle scuole pratiche”. Nel 1974 un testo classico di Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia: 1859-1973 (Il Mulino), rimetteva in discussione la convinzione per cui, di fronte a quello che oggi chiamiamo mismatch, la scuola italiana avrebbe dovuto dare più retta alle aziende. E mostrava come questa convinzione avesse legittimato una riforma, quella di Giovanni Gentile, che si era rivelata classista, rafforzando la selezione e l’indirizzamento precoce. Ancora oggi, come mostrano numerose ricerche, i processi di orientamento al termine di ogni ciclo scolastico riproducono disuguaglianze sociali, di genere ed etniche.

L’ambizione della Carta di Genova e della Confindustria è chiara: potenziare il sistema dell’orientamento per evitare il mismatch e favorire la coesione sociale, intervenendo sull’abbandono scolastico, aiutando i neet e aumentando i livelli medi di istruzione.

Ma il metodo è commisurato agli obiettivi? Secondo la Flc Cgil è troppo sbilanciato sulle aziende. “Serve un approccio alla conoscenza che faccia emergere attitudini, spirito critico e competenze”, denuncia la segretaria Manuela Calza. “Le trenta ore di orientamento a scuola non sono l’idea migliore per costruirlo”.

L’impressione è che una visione dell’orientamento spacciata per nuova non lo sia affatto. Ci si ritrovano infatti due residui storici. Il primo è l’idea secondo cui gli studenti andrebbero aiutati a indirizzare i propri percorsi scolastici e professionali in base ai talenti, alle inclinazioni, alle abilità che si suppone siano innate ma che invece dipendono dai contesti familiari e sociali in cui sono cresciuti. Il secondo è un atteggiamento più recente, di matrice neoliberale, per cui l’orientamento dovrebbe consentire a ragazze e ragazzi di acquisire competenze di base utili a progettare e riprogettare i propri percorsi di studio e di vita in modo da adattarsi alle esigenze di un capitalismo sempre più instabile come quello degli ultimi trent’anni.

Visioni nuove

Per come si sta delineando, in Italia il sistema dell’orientamento sembra incentrato sugli individui e sulla necessità di cogliere le opportunità delle nuove tecnologie, per diventare sempre più personalizzato. In questo modo dovrebbe risolvere come per magia una serie di problemi che sono, in realtà, strutturali: le carenze della scuola, gli enormi divari economici, sociali e culturali, e soprattutto i limiti delle aziende italiane. Quali idee pedagogiche hanno espresso gli imprenditori negli ultimi decenni?

Insomma c’è il rischio di attribuire agli individui – soprattutto i più vulnerabili, quelli che oggi hanno meno risorse per realizzare traiettorie di “successo” – la responsabilità delle carenze strutturali in cui sono immersi.

In alternativa si può pensare a una diversa concezione dell’orientamento. Da anni ormai i professionisti e i ricercatori stanno indirizzando il dibattito e gli interventi in tutt’altre direzioni. La Società italiana per l’orientamento ha osservato che “nel Pnrr emerge in diversi punti l’idea che fare orientamento significa avviare processi di match fra le caratteristiche degli individui e le richieste dei contesti lavorativi, utilizzando procedure di profilazione”. Sarebbe “la via maestra per aumentare le disuguaglianze e agire non in sintonia con le ricerche del settore”.

Occorre agire sulla giustizia sociale, la sostenibilità ambientale e l’inclusione

Laura Nota, docente dell’università di Padova e direttrice del Laboratorio di ricerca e intervento per l’orientamento alle scelte (Larios), dice che oggi c’è “la necessità di un orientamento che porti sia i bambini sia gli adulti ad acquisire capacità di lettura del contesto per costruire visioni nuove del futuro”.

Già nel 2013 l’International association of educational and vocational guidance metteva in guardia da un orientamento “guidato dalle domande sempre crescenti del mercato del lavoro”. Al contrario, l’orientamento deve basarsi su una visione d’insieme, “in cui siano considerati i complessi bisogni di sviluppo di tutte le comunità” e offrire “un contributo specifico allo sviluppo del pensiero critico, indipendentemente dal tema delle prospettive occupazionali”.

Evidenziare quest’indipendenza non è solo una questione di principio. Si scontrano due visioni: se sono le aziende a guidare l’orientamento formativo si insisterà su tempi brevi, se ci si affida a una prospettiva pedagogica si ragiona su prospettive di lungo periodo. È la tesi dei più importanti pedagogisti contemporanei, da John Dewey a Jerome Bruner, e soprattutto di quelli italiani, da Aldo Visalberghi a Benedetto Vertecchi.

Cristiano Corsini, professore di pedagogia all’università Roma Tre, prova a chiarirlo: “Si dà per scontato che le aziende cerchino solo persone con competenze critiche, capaci di mettersi in gioco, ma io ne dubito. Inoltre il rapporto tra lavoro e istruzione è squilibrato, si crede che le aziende debbano regolare l’istruzione e che l’istruzione non possa insegnare nulla alle aziende”.

Occorre agire sulla giustizia sociale, la sostenibilità ambientale e l’inclusione, sia a scuola sia nei luoghi di lavoro. In Italia il Larios ha promosso interventi rivolti a studenti e giovani adulti in cerca di occupazione, spingendoli ad acquisire conoscenze e competenze relazionali per creare contesti lavorativi ed educativi più inclusivi e sostenibili. Non solo, ragazze e ragazzi sono stati invitati a riflettere sulle dinamiche di sfruttamento e a immaginare i modi per contribuire a trasformare il mondo.

È chiaro quanto sia riduttiva la prospettiva per cui diventare adulti vuol dire entrare nel mercato del lavoro. Tuttavia non basta nemmeno l’ambizione a conoscere se stessi per orientarsi meglio nel mondo che già esiste. La possibilità ogni volta inedita che viene dalle giovani generazioni è quella di cambiare tutto in modi sorprendenti.

Questo articolo è stato pubblicato su L’Essenziale il 23 dicembre 2021.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it