Il 3 novembre è successo un fatto nuovo nella storia dei soccorsi in mare: la nave Ocean Viking dell’ong Sos Méditerranée ha chiesto alla Spagna, alla Grecia e alla Francia di assegnare un porto di sbarco. L’Italia e Malta non avevano risposto all’organizzazione umanitaria che chiedeva il permesso di attraccare dal 26 ottobre, dopo aver soccorso 234 persone in diverse operazioni al largo della Libia, la rotta migratoria più pericolosa del mondo in cui dal 2013 sono morte 25mila persone.

Le leggi internazionali prevedono che i soccorsi siano conclusi solo quando i naufraghi sono stati portati a terra e che ad assegnare un porto sia il paese più vicino (in questo caso quindi l’Italia o Malta). Ma da giorni tre navi umanitarie sono in stallo con quasi mille persone a bordo, tra cui molti minori: la Ocean Viking, la Geo Barents di Medici senza frontiere (Msf) e la Humanity 1 di Sos Humanity. Nelle prossime quarantott’ore si prevede maltempo e le navi umanitarie hanno paura che la situazione a bordo degeneri.

“Non abbiamo avuto nessuna forma di risposta, silenzio assoluto. Tutto quello che sappiamo delle posizioni del nuovo governo italiano ci arrivano dalla stampa, nessuno ci ha comunicato niente in maniera ufficiale”, afferma Lukas Kaldenhoff, portavoce dell’ong tedesca Sos Humanity.

Il neo ministro dell’interno italiano Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto del ministro Matteo Salvini all’epoca dei “porti chiusi”, nel 2018, ha annunciato di aver emanato una direttiva avvertendo le forze di polizia e le autorità portuali che il suo ministero sta valutando il divieto di ingresso nelle acque territoriali delle tre navi.

Alla richiesta dell’ong francese Sos Méditerranée ha risposto il ministro dell’interno Gérald Darmanin, dicendo che non “dubita” che l’Italia “rispetterà il diritto internazionale” e accoglierà la Ocean Viking.

“Il diritto internazionale è molto chiaro: quando un’imbarcazione chiede di attraccare con dei naufraghi a bordo, è il porto più sicuro e più vicino che deve ospitarla, in questo caso l’Italia”, ha detto Darmanin. “Abbiamo detto ai nostri amici italiani, insieme ai nostri amici tedeschi, che siamo ovviamente pronti ad accogliere una parte delle donne e dei bambini, come abbiamo fatto in precedenza, affinché l’Italia non se ne occupi da sola”, ha aggiunto il ministro francese.

Ma in Italia il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni non sembra disponibile e promette di tornare a chiudere i porti alle navi umanitarie, che in realtà compiono solo una parte dei soccorsi (il 16 per cento del totale). La maggior parte dei migranti arriva autonomamente a bordo di piccole imbarcazioni di fortuna, oppure è soccorso dalla guardia costiera italiana.

Meloni ha definito le navi umanitarie navi “pirata” e il ministro dell’interno Piantedosi ha promesso di emanare “un divieto di ingresso nelle acque territoriali” italiane, nonostante questo principio fosse già previsto dal decreto sicurezza bis voluto da Matteo Salvini, che portò a diversi casi controversi tra cui quello che coinvolse la comandante della SeaWatch Carola Rackete nel giugno del 2019 e quello che coinvolse la nave Open Arms nell’agosto dello stesso anno. Per il caso Open Arms, Salvini è sotto processo a Palermo con l’accusa di sequestro di persona. La prossima udienza si terrà il 2 dicembre.

A bordo delle navi
“Stiamo seguendo le leggi internazionali e non abbiamo intenzione di chiedere assistenza ad altri paesi europei, perché questo non è in linea con quanto dicono le leggi internazionali”, afferma Petra Krischok, coordinatrice a bordo della nave Humanity 1 che al momento si trova nelle acque internazionali al largo della Sicilia. “Abbiamo mandato diciannove richieste di un porto sicuro, sia agli italiani sia ai maltesi come previsto dalla legge e ci aspettiamo che ci rispondano”, continua Krischok.

La coordinatrice racconta che la situazione è molto difficile a bordo: “Abbiamo più di cento minori non accompagnati, sono ragazzi, non bambini, ma viaggiano da soli ed è tutto davvero complicato. Molti di loro hanno segni di violenza sul corpo, segni di tortura”.

Krischok racconta che tra i naufraghi “ci sono anche dei testimoni di un naufragio: la barca è affondata e alcuni di quelli che erano a bordo sono morti, sei persone sono scomparse. Non è facile per chi è sopravvissuto, ci sono molte persone traumatizzate. Inoltre alcune delle persone a bordo hanno febbre e raffreddore e questo rende la situazione difficile, stanno dormendo per terra, all’addiaccio”. Humanity 1 aspetta da due settimane un porto di sbarco: “Il primo soccorso lo abbiamo fatto il 22 ottobre, il secondo il 24 ottobre”. E nelle prossime ore ci si aspetta maltempo.

Sulla nave Geo Barents di Msf invece ci sono al momento 572 persone soccorse in sette distinte operazioni. Tra i sopravvissuti ci sono tre donne incinte e oltre sessanta minori, tra cui una bambina di undici mesi. “Siamo scappati dal Togo per via della crisi politica”, racconta il padre al telefono. “Abbiamo provato a vivere in Niger ma anche lì la situazione era difficile e così siamo andati in Libia. È lì che è nata nostra figlia con il labbro leporino. Abbiamo provato a curarla in Libia, anche spendendo molti soldi, ma abbiamo presto capito che era impossibile risolvere lì il suo problema. Ha problemi di deglutizione, deve essere operata. Siamo qui su questa nave perché non avevamo altra scelta”, continua l’uomo.

“Volevamo curarla in Europa, ma non volevamo affrontare il mare. Ma davvero, credeteci, non c’era altra scelta. Durante la traversata abbiamo avuto paura, è stato spaventoso. Ma avevamo fede e siamo una famiglia. Con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Io sono un tecnico edile, in Libia per guadagnare ho fatto il muratore. Ma venivo trattato come uno schiavo, senza essere pagato e senza poter mantenere la mia famiglia. Come potevamo continuare a vivere lì?”.

Perché i porti non si possono chiudere
La chiusura dei porti a navi umanitarie è in contrasto con diverse norme del diritto internazionale secondo cui le persone soccorse in mare devono essere trasportate nel porto sicuro più vicino alla zona del salvataggio.

La chiusura dei porti, nel caso di una nave che trasporta migranti soccorsi sotto il coordinamento delle autorità italiane, comporta la violazione della convenzione sulla salvaguardia della vita umana in mare (Convenzione Solas, firmata a Londra nel 1974 e ratificata dall’Italia nel 1980); la convenzione internazionale sulla ricerca ed il soccorso in mare (Convenzione Sar, firmata ad Amburgo nel 1979 e ratificata dall’Italia con nel 1989); la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Convenzione Cnudum o Unclos adottata a Montegobay nel 1982 e ratificata dall’Italia nel 1994).

Inoltre se l’Italia chiudesse i porti alle persone che ha appena soccorso, violerebbe gli articoli 2, 3 e 4 del quarto protocollo della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le persone soccorse infatti hanno evidente necessità di cure mediche e di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali) e le condizioni alle quali sono state esposte possono essere considerate trattamenti disumani e degradanti (in violazione dell’articolo 3) e a un serio rischio per la loro vita ( in violazione dell’articolo 2).

Inoltre siccome molti dei passeggeri delle tre navi umanitarie sono presumibilmente rifugiati o richiedenti asilo, si potrebbe configurare la violazione dell’articolo 33 della convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e dell’articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione europea dei diritti umani, quello che vieta i respingimenti, reato per cui l’Italia è stata già sanzionata nel 2012 per aver rimandato in Libia alcuni cittadini eritrei e somali che rischiavano di subire trattamenti inumani e degradanti.

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