Con il deposito delle candidature, il cui termine scade sabato 14 gennaio, comincia la campagna elettorale per le elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio. Si voterà il 12 e il 13 febbraio. Nell’ultima legislatura in Lombardia ha governato la destra con il leghista Attilio Fontana, nel Lazio il centrosinistra con l’ex segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti. Si tratta di un passaggio politico molto importante, almeno per il futuro dei cittadini. I partiti, invece, finora sono apparsi quanto meno distratti.

La vittoria finale viene ovviamente dichiarata da ogni candidato come l’obiettivo politico principale. Ma è anche vero che, salvo sorprese, difficilmente la vittoria di un candidato di per sé avrà conseguenze sul piano nazionale, com’è successo in passato. Ipotizzare alternative al governo della destra nel breve periodo è infatti molto difficile, e altrettanto difficile è immaginare che il centrosinistra possa provare a riequilibrare il rapporto con la destra usando un eventuale risultato positivo alle regionali come argomento politico. Così, l’attenzione di molti si è spostata soprattutto sul risultato che riporteranno i singoli partiti appartenenti allo stesso schieramento ma in competizione tra loro. Mai come in questa occasione, infatti, proprio questo dato, più che la vittoria o la sconfitta di un candidato alla presidenza, sarà in grado di innescare conseguenze politiche anche a livello nazionale, nei rapporti tra le forze politiche. La cosa è particolarmente evidente nel centrosinistra.

Da quelle parti infatti la batosta rimediata il 25 settembre scorso alle elezioni per il rinnovo del parlamento non è servita a niente. Nonostante la dimensione degli errori commessi, Partito democratico (Pd), Movimento 5 stelle (M5s) e Terzo polo hanno continuato a marciare divisi. In Lombardia – dove la destra ha ricandidato il presidente uscente, il leghista Attilio Fontana – Pd e M5s si presentano insieme, con Pierfrancesco Majorino come candidato, mentre il Terzo polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda sostiene Letizia Moratti, ex vicepresidente della giunta di destra ed ex sindaca di Milano. Nel Lazio – dove la destra ha candidato l’ex presidente della Croce rossa italiana Francesco Rocca – a presentarsi in solitudine è il M5s, che sostiene la candidatura della conduttrice televisiva Donatella Bianchi. Pd e Terzo polo hanno invece candidato Alessio D’Amato, assessore alla sanità nella giunta guidata da Zingaretti, che peraltro era sostenuta anche dal Movimento 5 stelle. Addentrarsi nelle ragioni di questo puzzle è ormai diventato un esercizio inutile e ozioso. Anche perché a complicare il quadro ci sono le divisioni interne a ciascun partito.

Mentre ci si appassiona ai bizantinismi continuano però a mancare le idee, e manca la capacità di dar vita a una qualsiasi iniziativa politica

Il caso più eclatante riguarda il Pd. Dopo la sconfitta alle elezioni politiche si è aperta la fase congressuale per il rinnovo della segreteria. Nelle ultime settimane l’intero gruppo dirigente si è perso in una discussione sulle regole del congresso, le quali a quanto pare possono cambiare da un momento all’altro, spesso in funzione delle esigenze dello stesso gruppo dirigente, perpetuando così la sensazione che il Pd sia uno strumento di gestione del potere più che un partito aperto verso la società. Mentre ci si appassiona ai bizantinismi continuano però a mancare le idee, e manca la capacità di dar vita a una qualsiasi iniziativa politica, circostanza decisamente grave all’inizio di una campagna elettorale.

In questo vuoto si sono da tempo inseriti il Terzo Polo e il M5s. Il partito di Conte è al lavoro per accreditarsi come perno dell’intero centrosinistra, a scapito proprio del Pd. L’operazione sta avendo successo. I sondaggi danno l’M5s stabilmente sopra il Pd di alcuni punti percentuali. Tuttavia la concorrenza tra Pd, M5s e Terzo polo è stata determinante per la sconfitta dell’area di centrosinistra alle politiche, e rischia di portare allo stesso risultato anche in queste regionali. Nonostante questo, il Pd sembra adesso incapace di qualsiasi reazione. L’M5s sembra più che mai interessato ad approfittare anche di questa occasione per svuotarne l’elettorato.

Quanto al Terzo polo, un po’ guarda ai voti dello stesso Pd un po’ a quelli di Forza Italia, e nel frattempo su alcuni temi – la giustizia, ma non solo – sembra più in linea con la destra che con le opposizioni. Nel centrosinistra insomma i partiti vanno avanti provando per lo più a cannibalizzare i rispettivi elettorati. Che sia per cinismo, disperazione o realpolitik, poco cambia: Giorgia Meloni non potrebbe chiedere di meglio. Ma anche lei rischia qualcosa. Soprattutto nelle elezioni del Lazio.

Deve infatti far dimenticare errori come quello commesso in occasione delle scorse elezioni comunali romane, quando la destra candidò Enrico Michetti, spesso protagonista delle cronache per le sue gaffes in campagna elettorale. E la candidatura di Rocca non è senza rischi. Dal suo passato è appena riemersa la storia, peraltro già nota, di una condanna per droga rimediata quando era molto giovane. Rocca ha risposto alle polemiche parlandone come di una storia di riscatto, considerata la piega che ha preso la sua esistenza dopo quella vicenda. Il problema è che adesso quella storia continua a occupare le pagine dei giornali per altre ragioni: un po’ per gli inciampi dello stesso Rocca nel difendersi, un po’ perché l’ex presidente della Cri viene attaccato quotidianamente da suo fratello per alcune dichiarazioni rilasciate sulle cause che lo spinsero ad avvicinarsi alla droga. Insomma, un mezzo pasticcio, e la sensazione che ogni cosa possa finire fuori controllo, proprio come accadde con Michetti. Con il rischio di dar ragione a chi sostiene che la destra manchi di classe dirigente e che Meloni sia brava a fare opposizione ma che debba ancora imparare molto nell’arte del governo.

Chi rischia di più

La candidatura di Rocca però ha significato soprattutto l’esclusione di Fabio Rampelli. Leader carismatico della destra romana e della cosiddetta corrente dei Gabbiani, molto ascoltato anche da un’allora giovane Meloni nella stagione della storica sezione della destra romana di colle Oppio, Rampelli pareva un candidato naturale. Eppure il suo nome è stato scartato. Venne scartato anche in occasione delle ultime elezioni comunali a Roma, così come è stato scartato dal novero dei papabili per un posto da ministro nell’attuale governo. Uno smacco. Con ciò forse si è voluta anche chiudere una stagione politica fondata sulla militanza più che sul potere, elemento che sembra invece caratterizzare l’attuale destra della cosiddetta generazione Atreju, della quale figura centrale è la stessa Meloni. Il risultato è che in Fratelli d’Italia si è tornati a parlare di un’opposizione interna. E la cosa a Meloni non può certo far piacere.

A rischiare di più a destra in queste elezioni sono però Forza Italia e Matteo Salvini, leader di un partito, la Lega, che da molto tempo perde consenso presso gli elettori. Se la Lega andasse di nuovo male, per lui sarebbero guai anche in caso di rielezione di Fontana, e dunque di una vittoria elettorale della coalizione con un candidato espressione del suo stesso partito. E questo perché, proprio come succede nel Pd, i problemi di Salvini derivano più dai rapporti con gli alleati e dalle divisioni all’interno del partito, che dalle conseguenze dello scontro con gli avversari.

A dimostrarlo ci sono un paio di episodi recenti. Prima la sconfitta dei candidati salviniani in alcuni congressi provinciali del partito. Poi l’uscita di alcuni consiglieri regionali lombardi dal gruppo della Lega per formare un nuovo gruppo, il Comitato Nord. Immediatamente espulsi dal partito, ma difesi dal vecchio leader Umberto Bossi tornato a farsi sentire, i fuoriusciti avevano anche minacciato di sostenere Letizia Moratti, candidata del Terzo polo, invece di Fontana. Almeno questa minaccia alla fine è rientrata, ma questa storia è il segnale che la costruzione di una vera opposizione interna basata sul ritorno alle istanze nordiste originarie della Lega non è impossibile. Così come non è impossibile la sostituzione di Salvini se il partito andasse male alle elezioni, sia in termini assoluti sia nel rapporto con Fratelli d’Italia. E in quanto caso le scosse potrebbero arrivare fino alla maggioranza di governo.

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