Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) ha vinto le elezioni e immediatamente nel Partito democratico (Pd) si è posto il problema di scegliere una donna alla guida del partito.

La questione della rappresentanza femminile di vertice, sempre relegata al margine, ha assunto così sostanza politica. Ma è accaduto all’improvviso e per un evidente riflesso condizionato. E questo dice molto di un partito che nei suoi primi quindici anni di vita è stato qualsiasi cosa e quindi nulla, si è adattato a ogni circostanza e ha governato con tutti, salvo Fratelli d’Italia. E adesso, a quanto pare, intende ripartire proprio da Giorgia Meloni.

Lo scrittore Emanuele Trevi, per esempio, intervenendo in un dibattito aperto sulle pagine di Repubblica in questi giorni, ha raccontato che il suo sogno è “una Giorgia Meloni di sinistra”, una leader cioè “che abbia la sua forza dirompente e che esca dalla prigione del politicamente corretto che sta soffocando i progressisti”.

Lo psicanalista Massimo Recalcati, altro intellettuale d’area, ha provato a rifondare il lessico del centrosinistra partendo dalla triade “dio, patria e famiglia”, presidio ideologico della destra più conservatrice, rivendicato apertamente anche da Meloni in campagna elettorale. Un altro scrittore, Francesco Piccolo, ha sostenuto che “quando vedi Meloni, be’, sembra divertirsi. Letta mai, e se ci prova è goffo”. E ha spiegato: “La leggerezza porta capacità di rischio”, e questo, dice, “è proprio il momento […] di rischiare”.

Certo, non saranno gli intellettuali a dare la linea al Pd eppure, anche osservando quel mondo da questo particolare punto di vista, emerge chiaramente una subalternità che non è mai stata soltanto politica ma è stata prima di tutto culturale. E, anzi, si può ragionevolmente dire che il Pd si sia organizzato in questo modo fin da quando i Democratici di sinistra (Ds) e la Margherita – post comunisti i primi, post democristiana la seconda – lo fondarono, nel 2007.

Era quello il momento in cui stabilire per quale idea di mondo si sarebbe battuto il nuovo partito, quale parte della società avrebbe rappresentato, se sarebbe stato moderato o riformista, liberale o socialista. E invece non accadde.

Un partito liberal

Di certo c’è che il Pd non nacque per essere un partito di sinistra, ma un’organizzazione dal “profilo liberal, blairiano e leaderista”, come ha fatto notare sul Corriere della Sera il 9 ottobre Rosy Bindi, una vita nella Dc, nel Partito popolare e nella Margherita prima di approdare nel Pd, diventarne presidente per una stagione, e poi uscirne.

Cosa dovesse essere quel partito lo spiegò il suo primo segretario Walter Veltroni nel famoso discorso tenuto proprio nel 2007 al Lingotto di Torino. Lo presentò come una forza “libera da ideologismi” e riformista: “La grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto”, capace di “unire le culture e le forze riformiste del nostro paese, superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di esse”. Insomma, un partito molto diverso da quella che sino a quel momento era considerata la sinistra.

Tuttavia, al cronista che chiedeva cosa il Pd avrebbe proposto agli italiani per esempio in materia di diritti o di economia, dall’interno del nascente partito venivano offerte risposte generiche e ragionamenti di circostanza. Veniva invece spiegato nel dettaglio che c’era prima di tutto da pensare a costruire le strutture del partito. Il resto sarebbe venuto in seguito. E così si discusse – come sta accadendo anche in questi giorni – soltanto di segretari, di correnti e di alleanze. Poi però il resto non arrivò mai. Si scelse di non scegliere cosa essere. Si preferì costruire uno strumento di potere. Vuoto, poiché tornasse buono per ogni occasione. E tale è rimasto.

In passato ricostruzioni di questo genere sono state respinte con decisione, non soltanto dall’interno del Pd. Ma il logoramento è tale che ormai sono diventate patrimonio comune, anche tra gli osservatori. E infatti in questi giorni sono in molti sui giornali a scriverne. Federico Geremicca sulla Stampa ha sostenuto che nel tempo il progetto originario del Pd è stato “quasi fagocitato da una irrefrenabile vocazione al governo. A qualunque governo”, e che l’ultimo decennio è stato, “con i governi tecnici, la segreteria Renzi, le scissioni, le emergenze, una sorta di via Crucis. Ma volontaria. O indotta da un cosiddetto senso di responsabilità che ha finito per giustificare qualunque scelta”.

E il drammaturgo Stefano Massini su Repubblica ha osservato che il Pd “per il suddetto (e ostentato) spirito di responsabilità si è trasformato nel portinaio sonnacchioso che dalla guardiola controlla e preserva il Palazzo”. Ma, se è vero che, come ha detto Letta, il Pd non può più essere “la protezione civile della politica italiana”, è anche vero che, come ha scritto su Repubblica Stefano Cappellini, “se il Pd smette di essere la protezione civile, cos’è? Nessuno lo sa” .

La subalternità politica che deriva da questa condizione è evidente e drammatica, e non è cosa di oggi: è tale fin dalla nascita del partito. Si può anzi considerare come un elemento programmatico. Forse perfino l’unico. In ogni caso, ha provocato danni irreparabili.

Dogmi indiscutibili

Come hanno scritto Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, la rinuncia alla politica, ha portato il Pd a nascondersi “assai spesso in una tecnica presentata come dogma indiscutibile (tipo i parametri di Maastricht, prima intoccabili anche spendendo bene, poi violabili anche spendendo male)”. Inoltre, come ha osservato Nichi Vendola, “la sinistra, prigioniera della responsabilità, ha tolto il saluto ai suoi mondi vitali. Non ha visto né sentito né compatito il dolore sociale”.

E, per un’altra strada, la sua adesione passiva alle ragioni della realpolitik mai assistita da un’autonoma elaborazione ideale, e quindi il suo essere diventato il partito del potere senza capacità di nutrire altre aspirazioni, è costato “un prezzo enorme: quello della perdita di una identità progressista”, come ha scritto Michele Serra.

Questo anche perché, mancando un vero ancoraggio ideale, si è fatto sempre più sfumato il confine di ciò che era opportuno o possibile sostenere. E anzi quel confine ha finito per spostarsi sempre di più nel campo delle altre forze politiche, e in particolare verso destra. Lo raccontano, tra l’altro, le politiche sulla sicurezza condivise dal Pd. Valga per tutti l’esempio degli accordi con la Libia sui migranti. Ma a dimostrarlo ci sono soprattutto le politiche su diritti civili e diritti sociali.

Per i primi il Pd ha sempre affermato di volersi battere. Tuttavia, nel migliore dei casi si è accontentato di battaglie di retroguardia, buone soprattutto per nascondere la propria incapacità di assumere una posizione politica purchessia. La strutturale immobilità che ne è derivata ha favorito un progressivo arretramento ideale.

Di recente se ne è avuta dimostrazione con lo ius scholae, versione leggerissima del diritto di cittadinanza. Ma è soltanto un caso tra i tanti. Perfino la legge del 2016 che istituisce le unioni civili, che a molti è sembrata una conquista, paradossalmente ha finito per discriminare per legge una parte dei cittadini, che ora vengono identificati sulla base del proprio orientamento sessuale e, in base a questo, esplicitamente esclusi dal godimento di diritti riservati alla generalità dei cittadini, con tutto ciò che questo significa anche dal punto di vista simbolico. Né è stata più affrontata la questione della cosiddetta stepchild adoption, l’adozione del figlio del coniuge in una unione civile.

Tutto ciò non è dipeso dalle condizioni di contesto, e dunque dal non avere la maggioranza in parlamento e dal dover passare per un compromesso con gli avversari. È invece dipeso dalla originaria rinuncia alla politica di cui si è detto sopra.

Testamento biologico

Chi ancora ricorda la surreale discussione che tra il 2006 e il 2007 avvenne in parlamento sul testamento biologico – e che si sviluppò in particolare all’interno della commissione sanità del senato, tra mille cavilli e senza approdare a nulla – sa che quello stesso atteggiamento non nasce con il Pd ma era già radicato nelle questioni irrisolte tra le due forze che poi lo fondarono, Ds e Margherita.

Quanto ai diritti sociali, fin dagli anni del primo governo guidato da Romano Prodi, e quindi dal 1996, il centrosinistra ha fatto tutto ciò che la destra non era mai riuscita a ottenere. Si pensi alle politiche del lavoro in generale e al sostanziale incentivo dato alla precarizzazione dell’esistenza dei giovani, o alla vicenda dell’articolo 18 dello Statuto del lavoratori. Si pensi anche alla totale disattenzione alla vita dei braccianti, dei poveri, di chi più avrebbe bisogno di rappresentanza politica.

Soltanto di recente Enrico Letta, con un’intervista al Manifesto, ha rimesso in discussione molte scelte operate dal Pd negli anni passati, criticando il cosiddetto jobs act e affermando che “la stagione del blairismo è consegnata alla storia”. “In tutta Europa”, ha spiegato, “credo che siano rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico”. Ma lo ha detto alla fine di una campagna elettorale disastrosa, e soltanto perché farlo era diventato indispensabile, visto che il Movimento 5 stelle guidato da Giuseppe Conte stava erodendo consenso al Pd proprio da sinistra.

Insomma, incapace di proporre un’idea di società e di occupare uno spazio politico riconoscibile, mai in grado di influenzare una stagione politica e sempre costretto a inseguire le idee altrui, in tutti questi anni al Pd non è rimasto che rifugiarsi nell’invocazione del voto utile. Che significa presentarsi agli elettori come il male minore, e niente di più.

L’unica discussione che in questi quindici anni il Pd è stato davvero in grado di offrire al paese è stata quella sul potere, infinita e sfiancante. La sua classe dirigente, quando si è resa conto dell’esistenza di un problema politico, ha saputo rispondere soltanto sul piano della relazione tra partito e potere. E anche adesso non sa far altro che discutere di questo.

Ci si interroga su un eventuale cambio di nome del Pd. Si discute di alleanze e di correnti, o di candidature alla segreteria. E non è un caso. Infatti anche le correnti – che nei partiti popolari della prima repubblica erano gruppi capaci di esprimere posizioni politicamente omogenee dentro il partito, partecipando così alla costruzione della linea politica generale – sono diventate uno strumento di potere personale dei leader che le guidano. E hanno al centro non un’idea della politica ma la fedeltà a quello stesso leader.

In quindici anni il Pd ha cambiato ben otto segretari, senza però che sia mai stato chiaro quale fosse la sua identità politica

È inevitabile allora che tutto si risolva in uno scontro di potere. Ed è per questo che in quindici anni il Pd ha cambiato ben 8 segretari – Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Maurizio Martina, Nicola Zingaretti, Enrico Letta – senza però che sia mai stato chiaro davvero quale fosse la sua identità politica.

Anche il prossimo congresso, per quel che si capisce, dovrà pronunciarsi sul nome del prossimo segretario e non sull’identità politica del Pd. E dire che perfino Romano Prodi, considerato il padre nobile del centrosinistra, di recente ha affermato che “prima di eleggere un segretario bisogna comporre una linea politica” . Eppure si risponde spiegando che è normale che si pensi prima ai nomi, poiché in fondo sono i nomi a incarnare la linea. Ed è una dimostrazione clamorosa di come la vittoria riportata da Silvio Berlusconi negli anni novanta sia stata assoluta, e di natura culturale oltre che politica.

Detto altrimenti, anche nello schieramento occupato dai partiti che in quegli anni diedero vita alle coalizioni di centrosinistra di Ulivo e Unione, e che successivamente è stato occupato dal Pd, si è affermata un’idea di società in cui l’individuo prevale sulla comunità. Ha vinto, insomma, quella visione del mondo che nel novecento avevano sostenuto la premier britannica Margaret Thatcher e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.

E allora forse è partendo dalla consapevolezza della sua stessa natura che il Pd dovrebbe discutere durante il congresso. Anche perché adesso si trova di fronte un avversario nuovo, Giorgia Meloni, che rappresenta un modo diverso di uscire dalla prima repubblica rispetto a quello incarnato da Berlusconi.

Al di là delle idee che esprime, Meloni rappresenta infatti un modo di concepire la politica molto più novecentesco, e non ha eliminato del tutto l’idea di rappresentare una comunità, e non soltanto se stessa in quanto leader. Lo notava tra gli altri anche Giuliano Ferrara sul Foglio. Meloni, ha scritto, “è donna di partito”, che “ha fatto la gavetta e si è battuta per la promozione con il sesto senso della sezione, della federazione, della comunità partitica”.

Più in generale, questo bagaglio più novecentesco significa anche avere chiara la funzione dei corpi intermedi, ossia di tutti quei soggetti che, collocandosi tra politica e potere, rappresentano la società, al contrario del Pd che in questi anni ha liquidato perfino il rapporto con i sindacati. E non a caso la prima apparizione pubblica di Meloni dopo la vittoria alle elezioni è avvenuta in occasione di una iniziativa della Coldiretti a Milano.

Meloni, proprio per questo aspetto novecentesco del suo fare politica, rappresenta un avversario particolarmente insidioso per un partito che invece, inseguendo un’idea berlusconiana della politica, si è costruito sul rapporto diretto tra leader e popolo, ha rinunciato alle idee e si è consegnato al potere. E che adesso, avendolo perso, si scopre senza un’idea di società per la quale battersi. Il Pd insomma dovrebbe prima di tutto recuperare ciò che di buono aveva espresso il novecento, e che nel 2007 si decise di archiviare, gettandosi sulla strada di un nuovismo senza radice e, a quanto pare, senza futuro.

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